martedì 7 dicembre 2010

Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita...

Mi è capitato di nuovo sotto gli occhi, per la prima volta dai tempi dell'università, un interessante articolo di Gaetano Salvemini.

Oltre ad essere geniale e scritto magistralmente, è un quadro della corruzione e del malcostume meridionali tuttora ATTUALISSIMO.

Fu pubblicato su "La Voce" di Prezzolini il 3 gennaio del 1909.

Gli adolescenti che dopo aver fatto il liceo in una città del Napoletano, lasciano la famiglia per andare ad addottorarsi all’Università di Napoli , sono forniti assai di rado di una perfetta e solida coscienza morale. Ma anche nei peggiori non mancano mai grandi capacità di bene. E basta che un giovane meridionale abbia la fortuna di trovarsi sbalzato fra i diciotto e i ventidue anni in un centro di lavoro onesto, in una scuola universitaria seria e sana, perché in lui – fornito quasi sempre di un’intuizione rapidissima, di un forte amor proprio, di facile adattabilità all’ambiente – di determini subito una grande crisi di rinnovamento e di epurazione. E da questa crisi nascono prodotti talvolta mirabili per raffinatezza e per forza, ma non mai inferiori a quella che è la media intellettuale e morale dei giovani del Settentrione.
La più parte dei Meridionali, invece va a finire a Napoli. E Napoli è la piaga del Mezzogiorno, come Roma è la piaga di tutta l’Italia.
Nelle città universitarie del Nord non mancano, certo, occasioni di sviarsi al giovane, sfuggito appena alla costrizione della famiglia e della scuola secondaria, e avido di bere a grandi sorsi la coppa della libertà. Ma una grande ondata di lavoro affannoso travolge tutto, compensa ogni male, purifica tutto. E il giovane si sente come soggiogato da un comando universale, perenne, che lo sospinge alla fatica e lo consiglia a farsi avanti, ad affermarsi conquistatore di quelle forme poderose di vita che lo dominano e lo affascinano. Napoli , invece, vasto centro di consumi e di attività improduttive, in cui una metà della popolazione campa borseggiando e truffando l’altra metà, sembra fatta a posta per incoraggiare alla poltroneria e per educare alla immoralità. Tutto è chiasso, tutto è dolce far niente, quando non è imbroglio è abilità. Dal lazzarone che si spidocchia al sole, all’alto magistrato, di cui tutti sottovoce dicono che vende le sentenze; dal questurino, che sfrutta le prostitute, al giornalista ricattatore che sfoggia sfacciato automobili e amanti; tutti sembra che consigli al giovane: «Arrangiati, che io m’arrangio, l’onestà e il lavoro sono buoni per gli sciocchi: godere è lo scopo della vita». Nessuna voce grida alla sua coscienza inquietata e vacillante: «Su via figliuolo: lavora per te e per gli altri; il lavoro è la gioia, il lavoro è la libertà».
Dopo qualche mese di tirocinio in quell’ambiente pestifero e infetto, la giovane speranza della giovane delinquenza meridionale ha scelta per sempre la sua strada. Non è più il ragazzone di facile contentatura, timido e impacciato d’una volta. È diventato un elegantone: si pettina e si veste in modo da stare fra il cinedo e il guappo. Si è emancipato da ogni principio morale. Fa la corte alla figlia della padrona di casa. Abbraccia la serva in cucina e la portinaia per le scale. Molto spesso si busca la sifilide. Non c’è denaro che gli basti. E tempesta per averne la mamma e le sorelle di lettere menzogne e minacciose: povere mamme, che si consumano nella lotta ineguale contro le ristrettezze del bilancio; povere sorelle, che sfioriscono nell’ombra nutrendosi di legumi e rattoppando calzerotti per il fratello lontano!
Qualche volta Cocò si ricorda di essere anche studente universitario: quando c’è da fare una chiassata. Cocò è quasi sempre anticlericale: quando viveva Giovanni Bovio, non mancava mai di andare ad ascoltarlo e di applaudirlo almeno una volta all’anno. Spesso Cocò è addirittura socialista rivoluzionario: è insuperabile nel rompere le vetrate, nel fracassare le panche, nel fare con la  bocca e con la mano suoni non perfettamente musicali. Cocò può essere rivoluzionario tanto più agevolmente, in quanto è sicuro a priori dell’impunità qualunque birbonata faccia: i carabinieri, che moschettano per dei nonnulla i contadini affamati, non daranno mai noia al caro figlio di papà. E Cocò è sicuro a tutte le ore di trovare all’Università qualche migliaio di mascalzoni simili a lui, pronti sempre a fare come lui i socialisti rivoluzionari. Oggi le panche saranno rotte per protestare contro il governo, domani per anticipare le vacanze, dopo le vacanze per ottenere una riduzione di tariffe sui trams e poi per conquistare gli esami di marzo, poi per solidarietà con i colleghi bocciati; e avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e la scure.
Di tanto in tanto lo spirito di Cocò è turbato dallo spettro degli esami. Ma solo alla morte non c’è rimedio! Una Università in cui 5000 alunni fanno ogni anno, nelle sole sessioni di estate e di autunno, senza contare quella abusiva di marzo, 17000 esami, non può cercare troppo il pelo nell’uovo in questo genere di operazioni. Eppoi parecchi professori ufficiali esercitano anche le libere docenze, inscrivendosi al loro corso libero, l’elegantone laureato si garantisce abbastanza bene contro i rischi di quegli esami che dipendono da quei professori. Altri professori ufficiali sono investiti di incarichi in materie non  obbligatorie, che apparirebbero inutili qualora non vi si scrivesse un numero sufficiente di volenterosi. Cocò si inscrive anche a questi corsi, e si assicura altri esami. Parecchi professori ufficiali, specialmente delle facoltà di giurisprudenza e medicina, sono avvocati o esercitano la professione, o fanno gli affaristi: è facile, quindi, trovare il magistrato, il banchiere, l’lettore influente, il cliente danaroso, il socio d’affari, che con una raccomandazione metta a posto qualche altro esame. Poi ci sono i professori indulgenti per natura, o vecchi o rimbecilliti, che non bocciano mai, mai, mai. Non manca a Cocò che incontrare nell’Università di Napoli uno dei trecentocinquanta liberi docenti, imbroglione e pasticcione, camorrista e intrigante, che sa aiutare nei momenti difficili i poveri giovani bisognosi di soccorso. Basta dare la firma a uno di costoro, lasciandogli godere tutte le dodici lire e centesimi dell’indennità e non pretendendo il rimborso immediato il rimborso immediato di una parte delle dodici lire, come molti fanno, e la gratitudine e la protezione del libero docente è assicurata in tutte le commissioni d’esame, in cui egli farà parte.
Ed ecco come l’Università di Napoli sforna ogni anno circa 600 fra medici e avvocati e una sessantina fra professori di lettere e scienze, dei quali la più parte non è assolutamente capace di scrivere righe senza almeno errori di grammatica ed è intellettualmente abbrutita e moralmente disfatta. Questa vergogna non è peculiare all’Università di Napoli. Tutte le università italiane sono più o meno ammalate: ed in di corsi liberi, per es., gli abusi che si commettono dai professori ufficiali a Palermo, a Torino, a Padova, sono forse superiori a quelli di Napoli. Ma è innegabile che nell’insieme l’Università di Napoli è quella che accentra in sé il minor bene e il maggior male; che mentre nelle altre università prevalgono fra i professori ufficiali in proporzioni più o meno forti gli scienziati sugli affaristi, nell’Università di Napoli prevalgono gli affaristi sugli scienziati.
Cocò, analfabeta e laureato, si avvede ben presto di essere inetto a vincere un concorso per la magistratura i per le prefetture o per i ministeri, se è avvocato; è sistematicamente bocciato nei concorsi per le scuole medie, se professore; non ha nessun titolo di capacità per ottenere una condotta fuori del paese natio, se è medico. Se ne ritorna, dunque, sospirando alla casa paterna dove lo aspettano la mamma invecchiata e le sorelle avvizzite. E qui, impotente a vivere coi frutti della professione libera, privo com’è di una qualunque abilità tecnica, tenta di assicurarsi un reddito, anche minimo, con un impiego municipale. Dove il partito dominante è solido e potente, Cocò gli striscia umile ai piedi e gli chiede un tozzo di pane. Dove esiste un’opposizione abbastanza forte o la maggioranza non si affretta a riconoscere i meriti e i diritti del neolaureato, costui si mette all’opposizione e combatte la maggioranza nell’interesse della patria. E allora si vede Cocò, anticlericale fierissimo all’Università, iscriversi a una confraternita e tenere il baldacchino dietro al Vescovo nelle processioni; e l’ex-socialista rivoluzionario giocare la sera a terziglio col delegato, col maresciallo dei carabinieri, e chi applaudiva Giovanni Bovio falsifica le bollette del dazio consumo e ruba i denari della beneficenza.
L’azione politica degli spostati ha una grandissima importanza nella società moderna, perché costoro, non avendo nulla da fare, fanno per tutto il giorno della politica: sono giornalisti, libellisti, galoppini elettorali, conferenzieri, propagandisti. Fanno di tutto; e in grazia delle loro attività, si conquistano i primi posti nelle file dei partiti politici, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche. Per tal modo tutta la vita dei partiti si accentra in essi: e poiché le idee non girano per le strade sulle proprie gambe, ma si incarnano in uomini, si ha che le più belle idee, i più bei programmi di questo mondo, quando cadono nelle mani di quei miserabili, si riducono a pretesto per conquistare un impiego. E i partiti vanno in rovina; perché, conseguita la vittoria, la distribuzione degli impieghi è causa di ingiustizia contro gli impiegati antichi o di dissidi fra gli aspiranti, sempre più numerosi del bisogno; una prima ingiustizia indebolendo moralmente gli amministratori che l’hanno commessa, li dà mani e piedi legati in balia degli elementi peggiori del partito, che, minacciando scandali e e pronunciamenti, ricattano senza posa e senza freno i loro padroni e li obbligano a nuove ingiustizie o a nuove immoralità; gli impiegati maltrattati si inviperiscono, gli aspiranti delusi o passano al partito avversario, o restano nel partito a crear nuove scissioni e sospetti e recriminazioni. E così i partiti, che avevano riportato strepitose vittorie e sembravano depositari della più scrupolosa giustizia e padroni dell’avvenire, in pochi mesi si disgregano e precipitano nel fango.
È questa una malattia di tutti i partiti, a qualunque gradazione politica appartengano, e di tutti i comuni italiani, qualunque sia la razza che li popoli. E girando per l’Italia e vivendo a lungo in Romagna, in Lombardia, in Toscana, ho acquistato sotto questo, come sotto molti altri rispetti, una discreta stima per l’Italia… meridionale: tutto il mondo è paese; e anche i nordici sono discretamente sudici. Ma fra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale ci sono, a danno del Mezzogiorno, le seguenti differenze. 1. Nel Mezzogiorno le professioni libere offrono meno risorse che nel Settentrione, data la minore ricchezza del paese e i meno sviluppati bisogni civili della popolazione; 2. Nel Mezzogiorno i professionisti, e più specialmente gli avvocati, sono più assai numerosi che nel Nord, e quindi si riversa sugli impieghi comunali un maggior numero di spostati; e Cocò è costretto ad una concorrenza più feroce, e non ha modo di fare le cose per benino e di salvare le apparenze come fanno i suoi analoghi nell’Italia settentrionale; 3. Nel Nord la classe dei professionisti affamati costituisce soltanto uno fra gli elementi della vita politica ed amministrativa e deve coordinare e subordinare la propria azione a quella di altre classi che hanno peso politico: borghesia industriale e commerciale, proletariato industriale, proletariato rurale, professionisti competenti e non affamati; nel Mezzogiorno la borghesia capitalistica è poco sviluppata, il proletariato industriale è agli inizi, il proletariato rurale è escluso dal voto perché analfabeta, professionisti competenti e non affamati ce ne sono pochini assai. E così gli spostati – il cosiddetto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della classe politicamente attiva, sono ovunque i padroni del campo, saccheggiano senza limiti e senza freno i bilanci comunali; e si possono dare anche il lusso di dividersi in partiti, secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o dall’opposizione. E li spese di tutto questo lavoro le fanno sempre, alla chiusura dei registri i contadini.
E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante politico di una delle due camorre di professionisti affamati [maggioranza e opposizione], che si contendono il potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste nell’impetrare l’acquiescienza della prefettura, della magistratura, della questura, alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia al governo in tutte le votazioni per appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia. Con questa differenza: che le province settentrionali presidiate da una borghesia non indegna della sua funzione politica e sociale, e forti di una vigorosa vita autonoma, reagiscono contro l’infezione della Città Eterna, e bene o male fanno la loro strada. Nel Mezzogiorno la corruzione propinata dal governo centrale si accumula a quella che pullula nella vita locale, e tutto il paese si sprofonda in una fetida palude di anarchia intellettuale e morale e di volgarità.
E in tutto questo processo patologico una parte grandissima di responsabilità tocca ai professori dell’e Università di Napoli che sono venuti meno sì spesso al loro dovere di far servire l’Università a selezionare intellettualmente e moralmente senza debolezze e senza colpevoli pietà la borghesia meridionale; e hanno lasciato che essa funzionasse come una scuola superiore di mala vita, e contribuiscono così poderosamente a rendere impossibile nelle classi dirigenti del napoletano ogni iniziativa illuminata e benefica, a dissipare in esse ogni coscienza di dovere e di solidarietà sociale, a distruggere nel Mezzogiorno ogni capacità di vita locale energica e sana.
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sabato 4 dicembre 2010

Il Risorgimento combattuto... sotto le coperte!

Certamente il Risorgimento diede gloria ai nostri grandi patrioti e loro ne diedero all'Italia: Cavour, geniale stratega politico; Garibaldi, geniale stratega militare. E poi Vittorio Emanuele II (anche se preso per mano da Cavour) e Giuseppe Mazzini, quest'ultimo forse collocato immeritatamente nell'Olimpo dei grandi del nostro Risorgimento. Sta di fatto che volavano schioppettate e colpi di baionette, stragi e arresti, intrighi di palazzo e armistizi.
Ma il Risorgimento - pare strano - non si combatté solo così; si combatté - soprattutto si organizzò - sotto le lenzuola di sontuose camere da letto, in palazzi sfarzosi, tra nobili giovanotti aitanti e dame bellissime e spregiudicate. Una di queste era Virginia Oldoino, meglio conosciuta come Contessa di Castiglione, nonché cugina odiata di Cavour.  
Ma come andarono, in breve, le cose? Cavour era ossessionato dall'ordire trame per accaparrarsi potenti che appoggiassero la causa risorgimentale del Piemonte e le provava tutte. Sapeva di aver bisogno dell'aiuto di Napoleone III, imperatore di Francia, ma doveva accaparrarsene i favori. Ci provò in tanti modi: convinse Vittorio Emanule II a dare in sposa una sua figlia al nipote dell'Imperatore e trattò con quest'ultimo i famosi accordi di Plombiers. Ma come mai Napoleone III fu così accondiscendente? Certamente per motivi politici che non staimo qui a dire, ma anche a seguito di un piano, potremmo dire "a luci rosse", ordito dallo stesso Cavour: inviò la tanto odiata cugina, Virginia, in Francia, con un obiettivo ben preciso: infilarsi nel letto di Napoleone III, il quale da tempo non riceveva le attenzioni della moglie Eugenia, in dolce attesa. Virginia, donna bellissima e impavida, ci mise poco, ma proprio poco, ad entrare nelle grazie dell'Imperatore. Così, tra un appuntamento e l'altro sotto le coperte imperiali, gli sussurrava all'orecchio le ragioni del risorgimento piemontese e la "questione italiana". E come poteva il buon Napoleone III resistere? Così, tra i vari trattati e accordi di palazzo, si inseriva la procacità di Virginia Di Castiglione e anche a lei va riconosciuta una fetta di merito se, qualche tempo dopo, l'Italia si fece veramente.

Ma chi era in realtà questa donna? Prendiamo un breve ritratto che ne fa Mauro Chiabrando sul Corriere della Sera:

"Virginia non amò altri che se stessa, motivo per cui il figlio Giorgio, morto di vaiolo a Madrid nel 1879, la detestava cordialmente. Dagli uomini sapeva farsi adorare quanto odiare dalle donne, prima tra tutte la spagnola Eugenia Montijno, consorte di Napoleone. Dalla amata Spezia, appena sposata si trasferì a Torino alla corte di Vittorio Emanuele di Savoia e quindi a Parigi. Dopo un esordio memorabile alle Tuileries, alla sfolgorante ventenne bastò mezz’ora d’amore con l’Imperatore cinquantenne nella stanza azzurra del Castello di Compiègne per riuscire nella “delicata” missione di Stato che le era stata affidata. Era il gennaio del 1856. Napoleone la coprì di gioielli, tra cui una collana a cinque giri di perle e si favoleggiava di un appannaggio mensile di 50mila franchi".
E ancora, a proposito della sua "collezione" di amanti:

43 AMANTI E IL VOLTO VELATO - Caduto il Secondo Impero nel 1870, con abilità e scaltrezza continuò a tessere, tra Parigi e La Spezia, la rete delle sue amicizie influenti collezionando 43 amanti, 12 dei quali avuti contemporaneamente e sempre all’insaputa l’uno dell’altro. La venere incontrastata del bel mondo che aveva incantato per le toilette da favola, i gioielli, tra i fasti e i piaceri della mondanità, ebbe il solo grave torto di sopravvivere alla sua bellezza. Trascorse l’autunno della vita sola, nel terrore dell’indigenza, sopraffatta da cupa nevrastenia e senso di persecuzione. Dei ricordi ormai non sapeva che farsene: per non vedere la sua decadenza fisica si velava il volto, copriva gli specchi, usciva solo la notte, circondandosi di un’aura patetica di mistero. Ancora ricca, ma in crisi di liquidità, nel 1893 subì l’onta dello sfratto dal suo ammezzato di Place Vendôme occupato dal 1876.
Morì a Parigi il 28 novembre 1899 in un piccolo alloggio sopra il ristorante Voisin.  All’indomani del suo funerale, la polizia e Carlo Sforza per l’ambasciata italiana distrussero tutte le lettere e i documenti compromettenti riguardanti re, politici, papi e banchieri, da Napoleone III a Bismarck, Cavour, Pio IX, Rothschild. Ci restano i suoi diari. Avrebbe voluto tornare in Italia e farsi seppellire alla Spezia con i suoi gioielli (andarono invece a sconosciuti eredi con una fortuna stimata in due milioni di lire del tempo), la camicia da notte verde acqua di Compiègne e i suoi due pechinesi, Sanduga e Kasino, imbalsamati. Riposa invece, tra i grandi, al Père Lachaise.



domenica 28 novembre 2010

Ho trovato questa testimonianza in rete....

Ho trovato questa testimonianza in rete. Mi permetto di pubblicarla senza l'approvazione dell'autore (che non saprei come contattare). Se, però, ha pubblicato un suo pensiero su internet  è cosciente della "pubblicità" del suo pensiero. Alla sua schiettezza va tutta la mia approvazione.

Negli anni settanta, quando frequentavo la Falcoltà di Ingegneria Chimica all'Università di Napoli, sulle prime restavo in qualche modo preso dall'"istinto del gruppo" e sentivo forte la tentazione di aggregarmi agli "organizzatori" delle proteste studentesche; a quelli fighi, con la capacità di spacciare autentiche cazzate per verità ispirate da menti eccelse al solo scopo di soddisfare il proprio egocentrismo da figli di papà viziati in eterna vacanza-studio. Ad un certo punto pensai a mio padre, già cardiopatico per i danni della guerra e le preoccupazioni di dover mandare avanti la nostra famiglia, a mio zio che, per questo, si era fatto carico dei miei studi e mi chiesi; " ma io, da fuori-sede, mi metto a far comunella con questi qui?" Grazie a Dio mi sono brillantemente laureato e da allora non ho più smesso di odiare i furbetti figli di papà "de sinistra", gli sfaccendati di allora, attualmente cinquanta-sessantenni, infilati a calci in culo nella Pubblica Amministrazione, nelle Banche della Repubblica e nei mezzi di comunicazione, cioé in tutti i posti dove si parla molto e si lavora niente. Purtroppo non camperò abbastanza da vederli passare tutti a miglior vita....solo perché le nuove generazioni possano non esserne impestati.

Massimo
Riporto questa testimonianza, come si suol dire, "a titolo di cronaca". Ognuno ne pensi ciò che vuole.

venerdì 26 novembre 2010

Perché gli studenti non protestano per questo?

Nel testo che segue c'è uno spaccato dell'università italiana: dati preoccupanti, a tratti vergognosi. Una situazione che pare evidentemente insostenibile. Non ho mai visto però, nonostante ve ne fosse ragione, nessuno studente protestare. Non c'è stata traccia di manifestazioni di nessun tipo, né inchieste giornalistiche o trasmissioni televisive che ne parlassero con la dovuta attenzione. La verità è che l'università italiana è scadente, malfunzionante e baronale; sì, baronale, perché è diventata nel corso dei decenni una vera e propria CASTA, riservata a parentele egemoni e a nicchie di partito. Non parlo soltanto per essermi documentato ed aver letto in materia: parlo soprattutto per essere stato anche io tra i banchi dell'università. Ho visto con i miei occhi corsi di laurea e discipline di studio perfettamente inutili; ho visto docenti assegnare un 25 o un 30 a studenti che facevano "scena muta" (in altre parole: il docente non boccia per evitare che le 3 o 4 persone che seguono il suo corso lo abbandonino del tutto per paura dell'esame troppo severo). Ho visto docenti insultare dei loro colleghi di corso durante l'ora di lezione; ho visto - solo a ricordarlo mi si aggrovigliano le budella - una semplice etnologa (quindi, da lì a qualche mese, io e lei avremmo avuto lo stesso titolo di studio) insegnare una disciplina per la quale non aveva alcuna specializzazione, tanto che spesso, di fronte a domande intelligenti, si trovava nel più totale imbarazzo. Eppure insegnava lì perché era la moglie del segretario di corso di laurea, in ottimissimi rapporti con il Preside. 
Ricordo l'aula autogestita della mia facoltà con i poster di Stalin e Lenin (li considero senza dubbio dei criminali patentati); da lì una puzza (o profumo, a seconda dei gusti) di spinello che raggiungeva delle volte il piano superiore, insieme ad invettive contro i fascisti (eravamo nel 2004, non durante la Resistenza!). Ho visto ragazzi protestare senza aver letto neanche un rigo della riforma o legge o provvedimento contro cui protestavano. Lo so perchè lì c'ero. Rappresentanti degli studenti sulla trentina, o anche più, che protestavano per il DIRITTO ALLO STUDIO, ma non studiavano e trascorrevano giornate intere nei centri sociali o nei giardini dell'università a prendere il sole. Non  voglio generalizzare, ma di studenti di questa tipologia ce n'erano a iosa nella mia facoltà. E forse ce ne sono ancora. Iscritti in pseudo-corsi di laurea, con l'illusione che il mondo, o lo Stato o la società, gli debba qualcosa perché sono LAUREATI, dottori. Ma di che? Di discipline fantasma, create appositamente per trovare occupazioni a docenti con tonnellate di raccomandazioni. Il problema diventa anche l'occupazione: ma con una, chiamiamola così, specializzazione di cui non interessa niente a nessuno, per esempio in SCIENZA DEL FIORE E DEL VERDE, come si può pretendere una occupazione? In cosa? Non ha più speranza un buon giardiniere?     
Ma lasciamo la parola a fatti e dati. 

I CORSI DI LAUREA INUTILI (sono solo alcuni)


  1. Scienze del fiore e del verde
  2. Scienze dell'allevamento, igiene e benessere del cane e del gatto
  3. Interpretazione di conferenza o, più generico: Interpretazione
  4. Storia delle donne e di genere
  5. Scienze e turismo alpino
  6. Filosofia teoretica, morale, politica ed estetica
  7. Lingua, letteratura e cultura della Sardegna
  8. Teoria e prassi della traduzione
  9. Beni enogastronomici
  10. Antropologia ed epistemologia delle religioni


LE CIFRE SULL'UNIVERSITA' ITALIANA:

Nel corso degli ultimi anni gli atenei italiani hanno moltiplicato i corsi di laurea e, di conseguenza, le cattedre.
5.500 sono i corsi di laurea in Italia. Le università sono 90 con 330 sedi distaccate e 170 mila insegnamenti attivati. In media gli altri paesi europei ne hanno la metà. 37 sono i corsi di laurea con un solo studente. 323corsi di laurea non superano i 15 studenti iscritti. 20 sono le università italiane sull’orlo della crisi finanziaria. Negli ultimi 7 anni, però, sono stati banditi concorsi complessivamente per 13.232 posti da professore ordinario o associato, ma i promossi sono stati complessivamente 26.004. Nel 99,3 per cento dei casi sono stati promossi senza che ci fossero posti disponibili. Per coprire le nuove qualifiche i costi del personale sono aumentati di 300 milioni di euro.


ARTICOLO TRATTO DAL BLOG DI "PANORAMA"

Olio extravergine, Chianti classico, Vinsanto, Rosso toscano e grappa: roba di prima qualità quella con l’etichetta Villa Montepaldi. Prodotta con il sudore di esperti braccianti. E un po’ anche con quello di tutti noi. L’azienda agricola, difatti, è foraggiata con generosità dall’Università di Firenze, proprietaria di questi 40 ettari a San Casciano Val di Pesa, una ventina di chilometri dal capoluogo. Tenuta prestigiosa: fu degli Acciaoli, poi dei Medici, successivamente dei Corsini e infine dell’ateneo. Utilità? Discutibile: l’ultimo avvistamento di uno studente alla “fattoria dell’università “, come la chiamano vezzosamente i professori, risale a qualche anno fa. E l’azienda è in perenne perdita, nonostante i milioni di euro versati dall’ateneo. Che, tra un buon bicchiere di rosso e un crostino intinto in olio pregiato, ha un deficit di almeno una settantina di milioni di euro. Gorgo che rischia di raddoppiare nel 2010. Nella vicina Siena le cose non vanno diversamente, così come in molti atenei italiani. I bilanci in rosso nascondono spese ormai fuori controllo: troppi dipendenti, corsi di laurea di dubbia utilità, concorsi banditi senza sosta, sprechi che si perpetuano.

Mai come adesso l’università italiana sembra allo sfascio. I rettori lanciano furibondi allarmi, per scansare i tagli previsti dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. Gli studenti occupano le aule e sfilano per strada, protestando contro lo smantellamento del sistema pubblico. I conti però non tornano più. Come non sono tornati ad Antonio Brancasi, che a Firenze insegna diritto amministrativo. “Caro rettore”: cominciava così la lettera indirizzata al magnifico di Firenze, Augusto Martinelli. Missiva in cui il docente contestava le incongruenze dell’ultimo bilancio. Faceva le pulci Brancasi: dati statistici contraddittori, vendite di immobili fittizie, spese incomprensibili. Come quella di 1,2 milioni di euro per trasformare la solita Villa Montepaldi in un agriturismo. Investimento di cui si è persa memoria. L’ateneo adesso promette rigore.



A Firenze si spendono praticamente tutti i finanziamenti statali per pagare il personale. Lo fanno in tanti. Le economie devono partire da lì. Eppure quest’anno l’università, nonostante la voragine in cui è cascata, ha già bandito 43 concorsi per ricercatore. Ha eliminato il superfluo, almeno? Non sembrerebbe.

A guardare bene gli ultimi dati ministeriali, si scopre che ci sono decine di corsi con meno di 20 iscritti. Un indubitabile primato lo detiene però la laurea in scienza delle religioni: zero iscritti. Seguita a ruota da scienze pedagogiche, dove il volonteroso è uno solo. E dalla scuola per assistenti sociali, bazzicata da altri due stoici. Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss di Roma, è sferzante: “Classi con 20 studenti non potranno mai reggere economicamente: è una moltiplicazione di costi abnorme” dice. “Poi ci sono le sedi decentrate, centri di potere che servono solo a compiacere i politici locali. Il risultato è sconfortante: spese enormi, livello dei docenti modesto e studenti abituati a studiare sotto casa”. A Siena non sembrano essersi posti il problema.



Negli ultimi anni, mentre l’ateneo accumulava passivi, sono stati aperti tre nuovi poli: a Colle Val d’Elsa, San Giovanni Valdarno e Follonica, che si aggiungono alla sede di Grosseto. E a quella di Arezzo: qui brillano i corsi di laurea in storia dell’antichità (tre iscritti) e in società, culture e istituzioni d’Europa (sette allievi).

Del resto il vecchio rettore Piero Tosi, in carica fino al 2006, è uno che i centesimi non li ha mai guardati. “Una gestione che ha lasciato 160 milioni di debiti solo tra il 2002 e il 2005, anni in cui i bilanci sono stati chiaramente imbellettati” accusa Giovanni Grasso, professore di anatomia umana e storico antagonista di Tosi. “Hanno trasformato l’Università di Siena in un ente assistenziale ormai alla bancarotta”. Le cifre non sembrano dargli torto: i bilanci degli ultimi 6 anni totalizzano perdite per 130 milioni di euro. Periodo in cui il costo per il personale è aumentato costantemente, arrivando, tra docenti e amministrativi, a un dipendente ogni 3,9 studenti. Cosa si fa in situazioni del genere? Si taglia allo spasimo, ovvio. Eppure, nell’ultimo anno sono stati stabilizzati 300 amministrativi e sono stati banditi concorsi per 43 ricercatori. A Genova ne hanno assunti 34 di ricercatori, oltre a 17 professori. Peccato che l’anno scorso sia comparso un buco di 15 milioni di euro. La Corte dei conti sta indagando sulle cause. “È chiaro che molti atenei chiudono i bilanci solo con i più spericolati artifici ” attacca Roberto Perotti, economista della Bocconi e autore del libro L’università truccata. “Il disavanzo è sempre uguale a zero. Poi, a distanza di anni, vengono fuori i debiti”. Alla Sapienza il bilancio del 2007 è stato chiuso con 40 milioni di euro di deficit. L’ex rettore Renato Guarini, in carica fino al mese scorso, aveva dunque annunciato un “notevole contenimento della spesa per il personale”. Il proclama si è tradotto in una nuova infornata di cattedre: 186 solo quest’anno. Qualcuno obietterà: su tutto si può lesinare ma non sulla ricerca. Giusto.

Però solo in teoria, avverte Perotti: “La qualità dei professori in Italia è pessima, lavorano poco e guadagnano tanto. I concorsi sono una farsa che favorisce solo amici e parenti. Per molti avere il doppio degli insegnanti servirebbe solo a moltiplicare le tribù accademiche. D’altra parte, sono un errore anche i tagli indiscriminati del ministro Gelmini”. “Un colpo mortale a coloro che riescono, nonostante tutto, a fare ricerca di eccellenza” li ha definiti Ferdinando Di Iorio, rettore dell’Università dell’Aquila, in lizza per la candidatura a governatore abruzzese con la Sinistra arcobaleno. Il suo ateneo, però, dicono le statistiche, non riluce di virtù: spende il 95,5 dei finanziamenti statali per il personale e ha un disavanzo di 12 milioni di euro. Eppure non centellina: vanta un corso per infermieri ad Avezzano, un altro in economia del turismo a Sulmona e quello, più disgraziato, in ingegneria agroindustriale a Celano, con soli otto iscritti. I bilanci in rosso vengono fuori uno dopo l’altro. Alcuni rettori, sepolti dai debiti, invocano l’intervento dello Stato: “Si rischia una nuova Alitalia” ha detto il ministro Gelmini. Che a Panorama anticipa: “Non ci sarà alcun aiuto pubblico.

Gli atenei dovranno predisporre piani di rientro sui quali vigileremo. E la lotta agli sprechi diventerà prioritaria. L’università italiana è indifendibile e chi lo fa danneggia solo i ragazzi. Molti corsi di laurea servono solo a moltiplicare le cattedre: elimineremo quelli non necessari”. Proposito, in verità, già annunciato da molti suoi predecessori e mai messo in pratica. Le novità, invece, riguardano soprattutto i bilanci: “A partire dal prossimo anno dovranno essere come quelli delle aziende. Bisogna evitare che siano compilati in modo creativo, cosa che è avvenuta spesso. Saranno poi certificati da società esterne, verificati da una commissione ministeriale e pubblicati su internet” dice il ministro, che ha deciso di inviare ispettori nelle università più a rischio. “Non è tollerabile che alcuni atenei interpretino l’autonomia in modo univoco: spendono senza controllo e sperano poi che arrivi qualcuno a ripianare i debiti”. Alla Federico II di Napoli il rettore, Guido Trombetti, ha recentemente annunciato di avercela fatta da solo: “L’ultimo bilancio è in perfetto pareggio” ha assicurato.

Il penultimo invece era in profondo rosso: 10 milioni di euro. Poi però è cominciata l’era del rigore, che si è tramutata in un aumento delle spese per il personale del 4,5 per cento. Risultato: l’università sborsa per i dipendenti più di quanto gli trasferisca lo Stato. Avanzano 11 milioni: le tasse pagate ogni anno dagli studenti. Ma per far funzionare il più elefantiaco ateneo del Meridione sembrano pochini. Invece bastano, addirittura avanzano, tanto da permettere di bandire quest’anno ben 37 concorsi per docenti e 54 per ricercatori. E ci sono pure i debiti del Policlinico: si aggirerebbero intorno a 20 milioni di euro. Anche al Policlinico dell’Università di Messina i conti non tornano da anni. Tanto che dal 2004 la Regione Siciliana non approva un bilancio. Il deficit è di 40 milioni di euro. Per metà dovrebbe essere ripianato dall’ateneo, che insiste a non mettere da parte 1 euro, anzi. Il sito dell’università annuncia le selezioni per 90 amministrativi. Per i sindacati, i requisiti sono troppo stringenti: sospettano che siano stati cuciti su misura per parenti e amici. Il rettore, Francesco Tomasello, nega sdegnato. E va avanti a bandire: 74 posti per docenti e ricercatori solo nel 2008. C’è carenza di personale a Messina?





Al contrario: per il ministero, solo nella facoltà di medicina ci sono 320 medici di troppo. Non insegnano né fanno ricerca, sono solo inutili, anche se vengono pagati lautamente, e la regione partecipa alle spese. Come accade all’Università di Enna, la Kore, quarto polo siciliano nato grazie all’attivismo del senatore del Partito democratico Mirello Crisafulli, leader elettorale della zona. Tutto privato, promisero i politici quando si trattò, nel 2004, di ottenere le dovute autorizzazioni. Lo Stato non ci metterà un soldo, ribadirono. Ma la regione sì: un contributo di 2 milioni l’anno. Poi c’è la provincia, con 800 mila euro.

Altri 400 mila arrivano dalle esangui casse dei comuni di uno dei territori più poveri d’Italia. “Quella che è privata è solo la gestione” insinua Massimo Greco, presidente del consiglio provinciale. “Il cda della fondazione, composto da cinque politici, tra cui Crisafulli, è stato congelato a vita”. E il consorzio universitario ha 14 membri: “Nominati con regole rigidissime” ironizza Greco. “Uno per partito”. Sistema che rischia di sfasciarsi a breve. L’Università di Catania ha fatto causa alla Kore chiedendo 20 milioni di euro: 16 per gli stipendi dei docenti mandati a insegnare a Enna. Sarebbe un colpo ferale per il piccolo ateneo siciliano. A meno che da Palermo arrivi un sostanzioso aiuto. È andata così all’Università della Basilicata. Nel 2005 è entrata in esercizio provvisorio: nelle casse non c’erano più soldi. Poi è intervenuta la regione: ha concesso 3 milioni di euro l’anno fino al 2007, saliti ora a 5. Qualche tempo dopo, a febbraio del 2008, il figliolo di un ex assessore della giunta lucana ha vinto un concorso da ricercatore nella nuova facoltà di economia. Fortuite coincidenze, per carità.



martedì 23 novembre 2010

Fazio - si ???

Lunedì sera, Rai 3. Giovedì sera, Rai 2 (solo per  citarne due). Triste constatare che la musica è la stessa, quasi identica. Un manipolo di giornalisti -  a giudizio di molti quelli giusti e bravi - fanno informazione libera, imparziale; in barba ad altri giornalisti filo-dittatoriali, conniventi con la mafia e con il potere. Penso che non sia affatto così. Penso che Fazio e tutta la troupe radical-chic abbiano perso un'altra occasione per fare un'informazione veramente libera, onesta; ancora una volta incapaci di mettere da parte i paraocchi, le ideologie incancrenite - condannate dalla storia - e la lotta politica. Preferiscono - mi spiace dirlo - l'illiberalità spacciata per buonismo e democrazia. Basta appropriarsi di uno spazio televisivo, magari a suon di "vaffan..bicchieri" e mobilitazioni sindacali, e il gioco è fatto. Dopo di che la trasmissione  diventa proprietà privata, intoccabile, un bunker inespugnabile. Un palazzo in cui chi entra è accuratamente selezionato, le parole e le presenze scelte con cura; le idee e i comici pure, e gli argomenti opportunamente modellati. Questa è informazione? E' giornalismo? No, ne sono sicuro: questa è lotta politica, è campagna elettorale permanente, è indottrinamento di chi guarda, quasi violenza mediatica.
Soltanto qualche esempio sulla puntata di ieri, poi ai telespettatori e pensatori liberi "l'ardua sentenza": ci sono moltissimi attori sulla scena italiana, ma lì da Fazio parla soltanto Zingaretti, ex militante del PC, fratello del Presidente della provincia di Roma in quota centrosinistra. Sull'aborto, in Italia e nel mondo, non la pensano tutti come Emma Bonino (per fotuna), però nella trasmissione di Fazio può parlare solo lei, agguerrita radicale - Emma per gli amici - senza contraddittorio, senza che si insinui alcun dubbio in chi ascolta: è così e basta, tutto il mondo deve essere d'accordo. Veronesi, oncologo di fama mondiale in quota PD, è favorevole al nucleare, tanto che presiede la commissione che ne gestirà la diffusione in Italia; tuttavia nella trasmissione di Fazio parla soltanto Renzo Piano, certamente un architetto celeberrimo, che però del nucleare non ne vuole proprio sapere. Basta? In trasmissione intervengono i clandestini che a Brescia hanno protestato per giorni su una gru, ma dei poliziotti su cui hanno pisciato in testa neppure l'ombra; neppure un cittadino bresciano interpellato. (Tra l'altro, la prossima volta, per chidere giustizia su un torto subìto, mi arrampicherò sul campanile di Frosinone, preparate le telecamere!!!).
Poi interviene il sindacato: ce ne sono tre in Italia che vanno per la maggiore, la famosa triplice: CGIL, CISL e UIL (c'è anche l'UGL che sta prendendo piede, ma lasciamola stare). Ebbene? Da Fazio parla soltanto la CGIL. Degli altri sindacati neppure l'ombra. Guzzanti? 50 battute su Papa e Berlusconi e 4 o 5 suol centrosinistra. Ma almeno ha fatto ridere con battute intelligentissime (che Vauro diventi invidioso?)! 
OBIEZIONE 1: su Rete 4 ed Emilio Fede come la mettiamo? Almeno se li paga il "Berlusca", mica Emilio Fede lo paghiamo con le tasse degli Italiani!
OBIEZIONE 2: e il TG 1? E Minzolini? Il TG 1 è sempre stato filogovernativo, è una novità? Oppure Piero Badaloni, Piero Marrazzo, Lilli Gruber, David Sassoli, tutti candidati con il centrosinistra, non hanno mai lavorato al TG 1? Sono stati epurati?

Poi c'è il buon Saviano, che ho gradito molto. Ammiro il suo coraggio, senza dubbio. Peccato che la volta scorsa insisteva su presunte - quanto cirscoscritte - infiltrazioni camorriste nella Lega e ieri, in trasmissione, dopo aver denunciato la collusione della camorra con la politica, dimentica che da 16 anni tutta la Campania (Regione, Provincia e Comune di Napoli) è amministrata da governi di centrosinistra. Ma forse è stata una distrazione. Non era distratto, però, quando ha riferito tutte le recenti promesse - fatue, è vero - del Presidente del Consiglio sui rifiuti di Napoli. Su Bassolino e la Iervolino, però, neppure un accenno. Il censore è soltanto Berlusconi? 
Certo, è chiaro: quando parlano Fazio, la Dandini, la Busi, Santoro, Travaglio, Lerner, Vauro, Report sono tutti liberi, puri, autentici, obiettivi e democratici. Vespa invece è un farabutto: eh sì, perché nei dibattiti mette le parti una di fronte all'altra in egual numero, e se capita li fa anche scannare tra loro!
La verità è che Vespa non piace perché non è, a differenza degli altri, sfacciatamente antiberlusconiano. Perché, diciamocelo chiaramente, se in politica non sei antiberlusconiano non capisci nulla. Vespa non deve inventarsi trasmissioni pilotate e faziose, o servizi messi su a regola d'arte, perché di fronte  ad un politico mette un altro politico, e le domande possono farsele tra loro.

In fondo, se la Repubblica parla di Noemi e della D'Addario sono inchieste, se Feltri parla di Boffo e delle sue molestie è "linciaggio mediatico"; quindi l'ordine dei giornalisti (cosa sia e a che serve devo ancora capirlo) gli impedisce di scrivere per tre mesi. In altre parole non può dire quello che pensa Ma questa non è censura, è solo giustizia, perché parliamo di giornalisti berlusconiani, di parte. Invece chi scrive per Repubblica e l'Unità è libero, di colore politico neutrale, non asservito ad alcun partito o corrente di pensiero. C'è chi dice sempre la verità e chi dice sempre menzogne. Ci sono i buoni, paladini della giustizia e della verità, tutti concentrati in un ramo del parlamento e tutti impiegati in una specifica testata giornalistica; gli altri sono tutti cattivi, mafiosi, ingiusti, dittatori e, guarda un po', sessualmente disordinati. Mi si passi l'ironia. Il Presidente del consiglio non può avere una vita sessualmente e affettivamente disordinata (come a tratti pare), sono d'accordissimo; ma Luxuria, parlamentare della Repubblica Italiana nel 2006 in quota Rifondazione, può liberamente affermare in una puntata di Porta a Porta di essersi prostituita all'università per pagarsi gli studi. Quindi, cari studenti, voi, che cercate di non gravare sulle finanze della vostra famiglia con le spese univeristarie, lasciate perdere di lavorare la sera, fino a  tardi, nei locali, nei bar, nelle pizzerie, oppure sui cantieri o con qualsiasi altra occupazione part-time, chi ve lo fa fare? E' molto più comodo prostituirsi per pagarsi gli studi. Che brava la nostra (o il nostro?) Luxuria! Invece di chiedere i soldi ai genitori si è costruita da sé, con il sudore della sua fronte, facendo sacrifici immani! In fondo lei non deve dare il buon esempio agli italiani, mica è il Presidente del Consiglio!
Oppure Achille Occhetto, segretario del Pc, qualche anno fa affermò liberamente di essere andato con le prostitute (era una puntata delle Iene andata in onda su Italia 1). Ma questo è normale per i guru del pensiero libero, è libertà sessuale, guai se i bacchettoni filocattolici osassero aprire bocca!  Non era mica il Presidente del Consiglio! Ma mi chiedo: se lo fosse diventato? Se a seguito di mosse parlamentari avessero creato un governo tecnico (eravamo ancora nella Prima Repubblica del resto!), la redazione di Repubblica avrebbe mai scandagliato la vita sessuale di Occhetto per ravvisarne simili immoralità! Per carità, mi viene da ridere solo a pensarlo! Quella è libertà allo stato puro, è la dimostrazione del falso mito della castità e della famiglia felice! Oppure Occhetto pensò: "Se divento Presidente del Consiglio inizio a fare il bravo ragazzo"? Continuo con l'ironia, che ora mi va a genio. 

Non hanno le stesse responsabilità e ruoli del Presidente del Consiglio, non lo nego, ma un valore morale e civile è tale in sé, non a seconda dell'importanza o della visibilità di chi lo disattende. E non possiamo farci caso a fasi alterne, quando ci conviene! Doppiopesismo? Penso di sì.

 Non è un tentativo di assolvere l'attuale Primo Ministro, il mio, beninteso. Non lo gradisco né lo preferisco. Per quanto mi riguarda il mio voto sta tutt'ora all'opposizione! Le mie sono valutazioni sulla forma, sui termini della questione, non certo sul merito. Un'intera corrente politica ed ideologica, con annessi giornalisti ed intellettuali - da sostenitrice del sesso libero, dell'emancipazione sessuale di omo ed eterosessuali - diventa improvvisamente puritana e bacchettona! Ditemi voi se poi Berlusconi non è capace di fare miracoli!

"Ma che c'entra: Berlusconi è un dittatore perché ha le televisioni! Il posto di Rete 4 toccava a Europa 7", sosterrebbe un verace radical-chic! E perché il buon ministro Gentiloni che era al governo nel 2006 non ha fatto nulla per togliere legalmente di mezzo Rete 4 e metterci, giustamente , Europa 7? E' un mistero insoluto.

domenica 26 settembre 2010

Un fantasma tipicamente ciociaro

Il fantasma di Fumone

Una delle vicende più spaventose legate al castello di Fumone, meravigliosa cittadina ciociara, narra della triste e macabra storia del “marchesino”, la quale risale XIX secolo. Ultimo fratello dopo sette sorelle, il piccolo Francesco Longhi, primo figlio maschio, avrebbe avuto in eredità tutti i beni di famiglia. La tradizione vuole che le perfide sorelle, invidiose e per nulla intenzionate a perdere le proprie ricchezze, decisero di eliminare l’odiato fratellino. L'omicidio fu lento e spietatao: lo uccisero giorno dopo giorno mettendo quotidianamente nella sua scodella minuscoli pezzetti di vetro. In breve tempo comparirono i primi dolori che divennero via via più atroci, sino a trasformarsi in una lenta e terrificante agonia: morì alla tenera età di cinque anni. La madre, allora, straziata dal dolore causato dalla perdita di quel figlio tanto atteso ed amato, ordinò, disperata e delirante, che le sue spoglie fossero imbalsamate con la cera e poste in una teca di cristallo, cosicché se ne potesse eternarne la memoria. E così è stato. Aperto lo sportello del mobiletto, l’impressionante salma viene offerta alla vista. Tuttora non è chiaro il metodo usato per la mummificazione: il dottore morì subito dopo il lavoro in circostanze oscure. Secondo una leggenda nota agli abitanti di Fumone, il Castello sarebbe infestato dal fantasma dell'inconsolabile madre, Emilia Caetani Longhi; sembra che ogni notte ella, con passo inquieto e riecheggiante, si rechi a trovare il figlioletto, lo prenda in braccio ed inizi a dondolarlo tra nenie e lamenti. Ma pare che anche lo stesso “marchesino” non abbia abbandonato il castello, e che il suo spirito dispettoso si diletti a nascondere o spostare piccoli oggetti. Inoltre, come se non bastasse, saltuariamente dai sotterranei si udirebbero le urla e i gemiti degli spettri dei prigionieri dei sotterranei, la cui anima, dopo la tormentata esperienza terrena, non trovò mai riposo.

Servizio del TG1

Castello di Fumone, panoramica

Gli Indicatori del Mistero, puntata di VOYAGER

giovedì 23 settembre 2010

Risposta A David Sassoli, con affetto.

Inutile ribadire in questa sede la mia stima per Lei (David Sassoli). Tuttavia mi vengono delle considerazioni da fare, premettendo di non sentirmi né xenofobo né populista e, forse, nemmeno ignorante. Il suo intervento, seppur corretto e impeccabile, mira a considerare e valutare le scelte politiche di Italia e Francia rispetto ai rom, ma non presenta alcuna proposta di soluzione al problema. E' facile dire che Berlusconi e Sarkosy sbagliano, ma le soluzioni? LE VOSTRE SOLUZIONI? Prima di criticare - e per giunta senza alcuna alternativa - chiederei di vivere qualche giorno (basterebbe anche qualche ora) nei pressi dei campi rom, nei quartieri che ne sono a stretto contatto, nelle periferie piene di baracche. Lì non vivono i politici - men che meno quelli "di sinistra"- ma la povera gente, gli italiani dal reddito più basso; questo perché gli immobili nei pressi dei campi rom perdono di valore e i prezzi degli affitti crollano. Lì non vivrà mai un radical chic, ma la famiglia monoreddito, il cassintegrato. Lì, che Le piaccia o no, ci vivono solo i poveracci. E i rom, come diceva Cacciari (ormai ex sindaco di Venezia in quota PD) in un recente intervento, PER LORO CULTURA vivono in baracche fatiscenti, accontentandosi di elemosine ed espedienti vari, trascurando l'igiene personale e la cura dell'ambiente. Non ho mai visto una donna rom impegnarsi per trovare un lavoro serio, come badante, commessa, impiegata (certo, qualche rarità la troveremo!). Piuttosto ricordo le donne "zingare" chiedere in corteo le elemosine davanti alla facoltà di giurisprudenza di Tor vergata, nei pressi del centro commerciale "La Romanina". E penso ai bambini rom costretti "per cultura" ad elemosinare per le strade della città, con la copertura e l'assenso delle loro madri. A loro della scuola importa poco, è la loro CULTURA. Ma i bambini li teniamo fuori: per loro il discorso si fa più complesso, delicato.
Vede, non vorrei che la sinistra, o il centrosinistra, ricorresse ad un espediente che apparentemente contrasta il tanto vituperato populismo (o presunto tale ), ma che in concreto ne ricalca lo stile, le forme e gli effetti: IL BUONISMO. Convinta, per di più, che il buonismo sia di una levatura culturale superiore, di elite, appannaggio di pochi illuminati. Non sono un politologo, ma azzardo l'ipotesi secondo cui uno dei motivi che hanno portato il centrosinistra a perdere terreno (e a me dispiace) è stato proprio lo "sfatamento" del falso mito del buonismo da parte degli italiani; il fatto di averne riconosciuto il suo distacco con la realtà e il buonsenso. Interpelliamo la gente reale, quella che vive, respira e ama a ridosso dei campi rom. Sentiamo cosa dice, cosa pensa. Oppure voi politici, di destra e sinistra, andate a vivere da quelle parti, ogni giorno. OGNI GIORNO! Passeggiate per quei parchi (o in quello che ne resta), parcheggiate le vostre macchine tra quelle strade, fate giocare i vostri figli in quei piazzali! Ma questo non accadrà mai, perché i vostri figli studiano nelle MIGLIORI SCUOLE PRIVATE, e voi fate i ministri delle scuole dei poveracci; governate le scuole dei figli degli altri, perché lì i vostri rampolli non ce li manderete mai! I figli di Fioroni, Bertinotti, Santoro, Franceschini non dovranno mai integrarsi con i figli delle famiglie rom, semplicemente perché dove studiano non c'è nemmeno l'ombra dei bambini rom. Voglio vedere i vostri figli in prima linea nelle manifestazioni studentesche, nelle autogestioni e nelle occupazioni delle scuole!!! Voglio vedere i vostri figli in una classe con 10 immigrati (su 18 alunni) di 4 nazionalità diverse, dove si parlano lingue semitiche e orientali! Penso che sarà più facile vedere Berlusconi che impugna la bandiera con falce e mertello e canta "Bella ciao"!
Esiste il valore dell'accoglienza, che è sacrosanta; ma esistono anche i valori della convivenza civile, del rispetto della legalità, della tutela della natura e dell'ambiente; il valore del lavoro e dei diritti dell'infanzia. Perché proporre MALDESTRAMENTE il primo trascurando gli altri?
Con affetto e immutata stima.

martedì 21 settembre 2010

Profilo psicologico dei docenti

Un interessante libro di Bosworth, Haakenson e McCacken (1997) tratteggia alcune tipologie psicologico-comportamentali di insegnante. Eccole di seguito: 

AUTORITARIO
Pone molti limiti e regole alla vita di classe senza giustificarli agli allievi, intervenendo, se tali norme vengono trasgredite, con punizioni o richiedendo l'intervento sanzionatorio del Dirigente Scolastico. Svolge per lo più con toni calmi la lezione, non interrotto dai suoi allievi poiché non favorisce scambi verbali o discussioni. Non risulta, inoltre, particolarmente interessato alle motivazioni delle assenze dei propri alunni.

AUTOREVOLE


Pone regole ferme che motiva alla classe e contemporaneamente incoraggia l'autonomia; rimprovera fermamente ma con rispetto; tiene conto delle circostanze nella trasgressione delle norme e accetta una discussione critica; consente di essere interrotto per domande o commenti rilevanti; favorisce lo sviluppo di abilità comunicative.

SUPPORTIVO


Molto attento al benessere degli studenti, ma poco al controllo della classe: non imposta, infatti, un sistema di norme per la vita della classe, tollera atteggiamenti impulsivi e interviene poco per sanzionarli; si preoccupa di non urtare la sensibilità degli studenti e ha difficoltà a imporre il suo ruolo in classe.

PERMISSIVO

Non è coinvolto dalla vita della classe; pone poche domande agli allievi, risultando disinteressato; si impegna scarsamente sia nell'impostare e far rispettare le norme della vita della classe sia nel progettare e programmare attività; non dimostra iniziativa o creatività; inibisce la motivazione degli studenti, il loro coinvolgimento e il loro autocontrollo.

sabato 18 settembre 2010

La vacanza logora chi la fa!


Da una articolo pubblicato sul Corriere Della Sera del 30 agosto 2010

Scuola ESTATE SENZA SCOPO: TEMPO VUOTO DA ELIMINARE

Vacanze lunghe. Eredità di un’altra Italia che fa male ai ragazzi
Il mondo non va in vacanza, il pensiero neanche. Perché gli studenti debbono invece restare ogni estate tre mesi lontani dai banchi, ostaggi, più o meno consenzienti, di un sonno della mente che nei casi migliori è interrotto da squarci di divertito apprendimento (anche in vacanza si impara), nei peggiori li precipita in un ozio che non ha nulla di contemplativo, somigliando piuttosto all’inazione dei beoti? (Esagerato? Pensate al ciondolare fra playstation e tv, scena che qualsiasi genitore di adolescenti conosce nei dettagli, vista la frequenza. La domanda «non hai di meglio da fare che stare seduto sul divano?» non riceve mai risposta).

Sull’anacronismo dell’interminabile pausa estiva della scuola si torna a discutere ora, sfidando quella che Gaspare Barbiellini Amidei chiamava la «distrazione di massa» rispetto al tempo totalmente vuoto dell’estate dei nostri figli. Tanto in inverno e primavera ci si accalora in polemiche sul tempo scolastico pieno— a cui la gran parte dei genitori della scuola pubblica non vuole rinunciare, anzi lo vorrebbe ancora più pieno di contenuti pedagogici e iniziative — tanto, all’arrivo dell’estate si sorvola, si soprassiede accomodanti, si giustifica il precipitare nell’eccesso opposto, il tempo vuoto, ricordando che «è sempre andata così, anzi, quando si cominciava a ottobre era pure peggio». Neppure il tempo meteorologico pare più una motivazione sufficiente a tenere in vita un rito sempre più indifendibile: le ondate di caldo sono concentrate e le bizzarrie climatiche poco calendarizzabili.


Il settimanale Time, nel cuore dell’estate della distrazione di massa, ha rilanciato, rinfrescando la memoria sui danni prodotti dall’inattività: gli studenti americani, scrive citando uno studio della Duke University, durante lo stop estivo regrediscono nelle proprie conoscenze, perdendo in media un mese dei progressi fatti in matematica. La situazione peggiora nelle famiglie a basso reddito, con uno scivolone nelle conoscenze dei ragazzi di ben tre mesi e in tutte le materie. Nell’era della formazione continua, dell’aggiornamento, del perfezionamento senza fine, ci ritroviamo con un calendario scolastico da stagione agricola. Lo aveva detto Obama, giusto un anno fa, settembre 2009: «Non possiamo più permetterci un calendario disegnato per quando eravamo una nazione di contadini e c’era bisogno che i bambini andassero a lavorare nei campi al termine di ogni giornata». E, di qua dell’oceano, parole diverse per arrivare alla stessa conclusione: «L’attuale calendario scolastico è un cimelio del passato, quando le famiglie dei contadini avevano bisogno di avere i figli a casa d’estate per aiutarli nel raccolto della frutta. Oggi ci sono forti motivi a sostegno del cambiamento», è scritto in un rapporto dell’Ippr, Institute for Public Policy Research inglese datato 2008. (E, detto per inciso, sia Stati Uniti che Gran Bretagna hanno già vacanze estive più brevi delle nostre).

 In Italia, proposte di riforma delle vacanze vengono avanzate a ciclo continuo. Nel 2008 l’allora ministro dei Beni culturali Rutelli formulò l’idea, elaborata insieme al ministro della Pubblica istruzione Fioroni, di ridurle. Tutto si risolse nell’avvio di qualche coraggiosa sperimentazione regionale. L’anno successivo, il ministro all’Istruzione Mariastella Gelmini disse di essere «molto aperta» alla proposta di legge di un senatore del Pdl di iniziare le lezioni dopo il 30 settembre: «Potrebbe aiutare molte famiglie e dare una mano al settore turistico». Non se ne fece nulla, ma lo strabismo della progettualità mise a nudo l’assenza di una vera strategia.

Come si giustificano conclusioni così diverse? Le vacanze lunghe hanno i propri estimatori. Tutto si impara nelle aule scolastiche o si può apprendere anche fuori? E se è giusta la seconda, le vacanze non sono il periodo giusto in cui sperimentare il mondo e giocarsi le conoscenze sul campo? Anche l’estate senza scuola, insomma, può dare molto. Questo «molto» però — obietta chi le vacanze le vorrebbe sforbiciare, non abolire — bisogna andarselo a cercare, bisogna inventarselo (o avere i soldi per comprarlo perché le vacanze studio e i corsi di tennis costano), mentre la scuola, laddove funziona, è lì per tutti.



Il pedagogista Benedetto Vertecchi definisce un’«autentica follia» lo stop estivo di un trimestre: per garantirsi quell’infinita pausa, la scuola italiana è infatti costretta a correre, correre per i restanti nove mesi. E se alla fine i conti tornano, è solo grazie ad uno stratagemma: far coincidere il tempo dell’attività scolastica con le ore di lezione. Da noi, stare a scuola significa stare seduto al banco ad ascoltare gli insegnanti che portano avanti il programma. Le attività piacevoli, creative, divertenti, quelle che fanno crescere di cuore e di cervello restano fuori dalla porta delle aule: non c’è tempo. Laboratori, gruppi di studio, attività musicali o teatrali, persino giardinaggio: ciò che, a pieno titolo, in altri Paesi europei è considerato «tempo scolastico», perché svolto utilizzando le strutture della scuola, da noi è facoltativo in alcuni casi, inesistente in altri. L’esempio più limpido viene dalla Francia, dove il mercoledì non si fa lezione perché gli studenti sono impegnati in attività collettive (adesso vanno forte i club degli scacchi, che sono un modo divertente per integrare le conoscenze di matematica).
Se con «tempo scolastico» si intendessero, anche qui, tante cose e non una sola (cioè lo stare seduti al banco), forse il termine «vacanza » perderebbe parte del suo appeal e l’ipotesi di ridurre la lunga pausa estiva da eresia coraggiosa diverrebbe via praticabile. Il passo per arrivarci, insiste il pedagogista, è scardinare il vecchio congegno, fuggire dall’idea della scuola «catena di montaggio» — prima ora italiano, poi latino, poi storia, poi matematica, poi scienze—e recuperare tutto quanto può rendere ricco di esperienze il tempo dei ragazzi. «Da noi non c’è mai un momento in cui ciò che si apprende è oggetto di riflessione, applicazione, confronto e condivisione fra studenti o con gli adulti», sintetizza Vertecchi.
Anche la famiglia ha le sue responsabilità in un sistema che appare cristallizzato. A pesare è soprattutto quel modo di concepire lo studio/ lavoro e la vacanza come pianeti che orbitano in universi lontani, l’uno l’opposto dell’altro; quella «mentalità impiegatizia», come la definisce lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, che fa dire, in qualunque periodo dell’anno ci si trovi, «non vedo l’ora che arrivino le vacanze ». «A Milano—sostiene Scaparro—durante i mesi invernali gli adulti non parlano d’altro che delle ferie, sembra che l’anno sia formato da un picco di piacere, che coincide appunto con queste, e dai restanti 11 mesi di grigiore e routine». La dicotomia crea un circolo vizioso che sottrae energie, più che riattivarle. «Invece si può e si deve investire giorno per giorno: per vivere decentemente, anche quando lavoriamo o studiamo dobbiamo avere un piccolo spazio quotidiano di libertà. Trasmettere ai figli l’idea che il bello sia la vacanza mentre lavorare o studiare sono una dannazione è un errore che a settembre, quando si ricomincia, non riusciamo a recuperare».
D’accordo sulle vacanze estive da ridurre Edoardo Boncinelli, genetista. «Il cervello dei ragazzi, che per nove mesi ha mangiato tutti i giorni, d’estate improvvisamente si trova a digiuno, senza nulla su cui applicarsi seriamente. Certo: un ragazzo sano e sveglio il cervello l’adopera sempre, anche in vacanza; ci sono però anche i ragazzi pigri. E poi non dimentichiamo che ciascuno di noi si applica volentieri a quello che gli viene facile, dunque, comunque vada, il lavoro fatto durante le vacanze è sempre, per così dire, un lavoro "leggero"». La conclusione di Boncinelli è l’appello ad un equilibrio fra l’uso originario assegnato dalla natura al nostro cervello e il modo in cui invece noi, oggi, ce ne serviamo. «Il cervello doveva servirci a scattare al primo allarme, inseguire la preda trovando il modo migliore per catturarla, renderci conto della situazione ambientale, agire. Oggi invece lo usiamo per cose lontane anni luce dalla natura, come leggere. Parlare male della cultura non si può, perché è la cultura ad aver creato la nostra civiltà, però bisognerebbe raggiungere un equilibrio fra ciò che è bene per l’animale uomo e ciò che indispensabile per l’animale culturale».
La prossima estate sarà cambiato qualcosa? «Ci vogliono idee per cambiare, ma per avere idee serve la conoscenza», chiude Vertecchi. «In Italia non abbiamo strutture che consiglino le scelte più opportune, nelle nostre università la ricerca educativa è ridotta ai minimi termini. Faccio un esempio: oggi qualunque insegnante si lamenta perché la qualità delle prestazioni linguistiche dei ragazzi è bassa, il lessico povero, la sintassi scadente. La recriminazione è diffusa, e anche giusta, ma la domanda è: come ne usciamo? Per rispondere dovremmo conoscere il modello della comunicazione linguistica di bambini di 8 o 14 anni, sapere quanto e come è mutato nel corso degli anni. E questo non lo sa dire nessuno. Se non c’è accumulazione conoscitiva, dobbiamo rassegnarci alle impressioni. E solo con le impressioni i sistemi scolastici non cambiano, o cambiano male."




Daniela Monti
30 agosto 2010

venerdì 17 settembre 2010

Dare ai poveri il dominio sulla parola

Al Direttore del “Giornale del Mattino”, Firenze
 
Barbiana, 28.3.1956

Caro direttore,

il tuo giornale si prende spesso a cuore la sofferenza dei disoccupati e dei senza tetto e te ne siamo tutti grati.
Tetto e pane sono fra i massimi beni. Mancarne è dunque una delle massime miserie.
Eppure l'uomo non vive di solo pane. C'è dei beni che sono maggiori del pane e della casa e il mancare di questi beni è miseria più profonda che il mancare di pane e di casa.

Questo tipo di beni chiamerò ora per comodità di di­scorso « istruzione », ma vorrei che tu prendessi questa parola in un senso più largo, comprensivo di tutto ciò che è elevazione interiore.
A questo punto qualcuno insinuerà che presto al po­vero sentimenti che sono miei e che nulla al mondo pre­me  al povero quanto la casa e il pane. Lo cheterò allora con un argomento che non ammette repliche perché è un dato di fatto.
Sono parroco di montagna non molto lontano da Firenze. Il mio popolo contava 230 anime nel 1935, ora ne conta 124. Solo dall'anno scorso in qua ne ha perse 24. Su 25 case ce n'è 7 vuote. Diglielo a La Pira, 7 case vuote! E non manca neanche un boccone di pane per chi ci volesse tornare. Sudato, strappato, ma insomma bene o male quando c'erano quei 106 in più hanno mangiato e non sono morti di fame. E la terra allora rendeva meno d’ora. Vedo poi nel tuo giornale che pagate la legna a 1200 lire il quintale. Penso che i vostri disoccupati devono aver patito un gran freddo quest'inverno. Noi invece s'è tagliato quercioli e querci quanto c'è parso. Nel focolare dei più poveri dei miei figlioli brucia ogni giorno certi ceppi che a voi altri vi basterebbero due inverni.
Qui dunque case a scialo, legna a scialo, e un boccone di pane per tutti. E a Firenze La Pira a arrabattarsi coi barroccini degli sfrattati da un uscio all'altro. Perché non ce li manda quassù?
Ecco, vedi, anche lui, che i dolori dei poveri in città li ha ben presenti, lui che di montagna non se ne intende, l'ha fiutato però che quella parola non la poteva dire.
« Vacci te! » « Perché io? Vacci te! » griderebbe ognu­no a Firenze dal più grande al più piccolo. Lo direbbe chi lavora al disoccupato, lo rinfaccerebbe il disoccupato a chi lavora.
La Pira non è di quelli che dicono che i montanari scendono al piano per andare al cinema. Lui non offende così un popolo intero che migra. Un popolo intero, non due o tre giovani sconsiderati e avventurosi. Un popolo intero, coi saggi vecchi e le donne di casa che non hanno più grilli per il capo. Sono scesi al piano e son disposti anche a morirvi di fame, di freddo e d'altri stenti, ma ai monti non risaliranno mai.
Qualcuno dice che se i disoccupati e i senza tetto non vi salgono è solo perché non sanno più i mestieri dei monti.
Eh sai, ce ne sarà di molti dei vostri disoccupati che non sanno i mestieri dei monti! Fate un po' una statistica sui luoghi di nascita dei vostri manovali disoccupati. Al più lungo saranno scesi da una generazione. Ma i più sul­la terra e sui monti ci son nati e saprebbero ancora gua­dagnarsi il pane con l'accetta nel bosco e anche adattarsi al nostro tipo di stenti perché l'han lasciato da poco e ci son cresciuti. Saprebbero, ma non s'adattano.
C'è dunque qualcos'altro. Questo qualcosa è ciò che ho detto di voler chiamare istruzione e comprende tutte le infinite piccole grandi cose che pongono un montanaro in condizioni di inferiorità e d'umiliazione di fronte al cittadino.
Sull'analisi di questo fatto non ho bisogno di dilungar­mi. Mi basta per ora averne dimostrato l'esistenza. Dico­no che l'esodo dai monti è un salto dalla padella nella brace. Ma nessuno ritorna indietro, dunque quel qualco­sa che brucia più della brace esiste. E quel qualcosa è per forza il dislivello culturale perché non vedo cos'altro pos­sa essere se non è né il pane né la casa.
Ciò che dico dei montanari rispetto a quelli di piano vale poi coll'identico peso, anche se a livelli diversi, per i contadini rispetto ai pigionali, per i campagnoli rispetto ai cittadini, per gli operai rispetto ai diplomati.
Le conseguenze di questi quattro dislivelli culturali so­no gravissime, e si estendono ai campi più vari e impre­visti.
Mi basti qui accennarti che su chi sa meno gioca bene il •propagandista politico, il commerciante, 1'imprenditore, la Confindustria, il distruttore di religione, il corruttore, lo stregone... Ma ti risparmio il quadro doloroso che po­trei tracciarti di questa che è la miseria più grave dei mi­seri e che riassume tutte le altre loro miserie, perché sup­pongo che tu ne sia già compreso da tempo. Veniamo piut­tosto a analizzarne l'intima essenza.
Credi proprio che uno dei miei ragazzi di montagna abbia un numero di cognizioni molto inferiore di un suo coetaneo di città?
Dieci anni di occhi di ragazzo spalancati sul mondo so­no dieci anni qui sul Monte Giovi come in via Tornabuo­ni. E nel tempo che i vostri figlioli posavano gli occhi su un mucchio di cosette scelte, i miei non li tenevano mica serrati, li posavano su altre cosette.
I vostri conoscono il dinosauro e il puma ma non co­noscono un conigliolo maschio da una femmina. I miei non sanno i colori del semaforo né se un rubinetto si giri a destra o a sinistra, ma in compenso sanno tutto sulla vita del bosco coi suoi infiniti nidi, rettili, piante, col volgere delle stagioni e delle ore.
Dieci anni valgon dieci anni, credi a me. Va bene che sui libri c'è una concentrazione di osservazioni che con gli occhi nostri e basta non si potrebbe raggiungere. Ma qui in compenso, nel grande libro del bosco e del campo, c'è una concretezza di osservazioni che sui libri non si raggiungerà mai.
Ma oltre al libro del bosco c'è anche quello delle fami­glie. Sulle famiglie e le loro leggi e i loro rapporti sa trop­po di più un ragazzo di qui che uno dei vostri. Passa un trasporto e non sapete chi è morto, come è morto, se ha lasciato dietro di sé pianto e litigi. Cosa volete dunque saperne della vita all'infuori del ristretto cerchio di casa vostra o di quello dei libri che leggete e vi ingannano per­ché di solito lì ha scritti gente isolata nel guscio come voi?
Tutto questo discorso solo per concludere che è da pre­sumersi a priori che per es. un boscaiolo di vent'anni sia ricco di cognizioni e d'una visione del mondo pari a quel­la d'un universitario di vent'anni. Non voglio dire egua­le, ma equivalente si. Più ricca da una parte, più povera da un'altra. In conclusione: certo non inferiore. Anzi, se proprio dovessi dire la mia opinione sono incline a credere che Dio abbia voluto dare piuttosto qualcosa di più al diseredato che all'altro: in buon senso, equilibrio, rea­lismo ecc.
Ebbene, ora questi due uomini che abbiamo detto cer­to non inferiori l'uno all'altro per ricchezza interiore, mettiamoli di fronte l'uno all'altro in discussione. Oppure di fronte ai problemi quotidiani che la vita moderna impo­ne, e vedremo il mio figliolo cadere al primo colpo. Umiliato, battuto in mille occasioni dal primo bellimbusto di studentello cittadino.
Forse che il semaforo o il rubinetto (opere di mano d'uomo) valgono più del bosco (opera di Dio)? Forse che fra le cognizioni c'è una gerarchia di valori? Alcune (quelle di città) nobili e utili; altre (quelle del bosco) ignobili e vane. Se quella gerarchia si dovesse fare, vorrei che le cognizioni del bosco fossero innanzi a quelle del programma TV o a quella dell'ultimo ritrovato americano per far la vita comoda e non virile. Ma quella gerarchia non esiste. Il sapere è nobile sempre, quando è conoscenza del creato di Dio.
Io son sicuro dunque che la differenza fra il mio figlio e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola.
I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre e ínsteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l'intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradi­menti le infinite ricchezze che la mente racchiude.
Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, glie­le seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi.
Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano subito l'utilità pra­tica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L'uno se ne accor­ge nell'affrontare il libro del motore per la patente. L'al­tro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo s'è buttato sui romanzieri russi e li intende. Ognuno di loro se n'è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista a voce alta, pieni di bo­ria. Delle loro parole afferra oggi il valore e ogni sfuma­tura. S'accorge solo ora che esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. I più arditi han provato anche a metter bocca. Cominciano a inchiodar il chiacchierone sulle parole che ha detto.
« Parole come personaggi » si chiama una tua rubrica. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale. Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la ti­rannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata.
Una utopia? No. E te lo spiego con un esempio.
Un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare 1'ope­raio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l'operaio e l'ingegnere, non c'è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l'ingiustizia di oggi per cui l'ingegnere debba essere più uomo dell'ope­raio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Que­sta non fa parte delle necessità professionali, ma delle ne­cessità di vita d'ogni uomo, dal primo all'ultimo che si vuol dir uomo.
Il dominio sul mezzo d'espressione è un concetto che non riesco a disgiungere da quello della conoscenza delle origini della lingua. Finché ci sarà qualcuno che la pos­siede e altri che non la possiedono, questa parità base che ho chiesto sarà sempre un'irrisione. [...]


Don Lorenzo Milani

 

venerdì 26 febbraio 2010

Quale sarà il tuo verso?


LA POESIA
BENIGNI “LA TIGRE E LA NEVE”
R. Williams”L’ATTIMO FUGGENTE”
COSA DICONO ATTORI E REGISTI DELLA POESIA

1Trovate la vostra camminata: la libertà di avere vostri tempi e vostre idee.
2Dovete credere che i vostri pensieri siano unici e vostri.
3Guardate le cose da angolazioni diverse.
4Quando leggete considerate quello che voi pensate,non solo l’autore.
5Dovete trovare la vostra voce.
6Non affogate nella pigrizia mentale.
7Parole e idee possono cambiare il mondo.
8Non scriviamo poesie perché è carino, noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana e la razza umana è piena di passione.
La bellezza, l’ amore, il romanticismo, sono queste le cose che ci tengono in vita.
9Il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un verso.

10 Quale sarà il tuo verso?



1La poesia non è fuori, è dentro.
2Siate felici! Per trasmettere la gioia bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere… felici!
3Non esiste una cosa più poetica di un’ altra.
4La bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere.
5Innamoratevi! Se non vi innamorate è tutto morto.
6Dilapidate la gioia, sperperate l’allegria.
7Non abbiate paura a soffrire. Tutto il mondo soffre.
8Per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto.
9La novità è la cosa più vecchia che ci sia.
10Il cielo si vede solo da distesi.
11I poeti non guardano, osservano.

domenica 14 febbraio 2010