domenica 26 settembre 2010

Un fantasma tipicamente ciociaro

Il fantasma di Fumone

Una delle vicende più spaventose legate al castello di Fumone, meravigliosa cittadina ciociara, narra della triste e macabra storia del “marchesino”, la quale risale XIX secolo. Ultimo fratello dopo sette sorelle, il piccolo Francesco Longhi, primo figlio maschio, avrebbe avuto in eredità tutti i beni di famiglia. La tradizione vuole che le perfide sorelle, invidiose e per nulla intenzionate a perdere le proprie ricchezze, decisero di eliminare l’odiato fratellino. L'omicidio fu lento e spietatao: lo uccisero giorno dopo giorno mettendo quotidianamente nella sua scodella minuscoli pezzetti di vetro. In breve tempo comparirono i primi dolori che divennero via via più atroci, sino a trasformarsi in una lenta e terrificante agonia: morì alla tenera età di cinque anni. La madre, allora, straziata dal dolore causato dalla perdita di quel figlio tanto atteso ed amato, ordinò, disperata e delirante, che le sue spoglie fossero imbalsamate con la cera e poste in una teca di cristallo, cosicché se ne potesse eternarne la memoria. E così è stato. Aperto lo sportello del mobiletto, l’impressionante salma viene offerta alla vista. Tuttora non è chiaro il metodo usato per la mummificazione: il dottore morì subito dopo il lavoro in circostanze oscure. Secondo una leggenda nota agli abitanti di Fumone, il Castello sarebbe infestato dal fantasma dell'inconsolabile madre, Emilia Caetani Longhi; sembra che ogni notte ella, con passo inquieto e riecheggiante, si rechi a trovare il figlioletto, lo prenda in braccio ed inizi a dondolarlo tra nenie e lamenti. Ma pare che anche lo stesso “marchesino” non abbia abbandonato il castello, e che il suo spirito dispettoso si diletti a nascondere o spostare piccoli oggetti. Inoltre, come se non bastasse, saltuariamente dai sotterranei si udirebbero le urla e i gemiti degli spettri dei prigionieri dei sotterranei, la cui anima, dopo la tormentata esperienza terrena, non trovò mai riposo.

Servizio del TG1

Castello di Fumone, panoramica

Gli Indicatori del Mistero, puntata di VOYAGER

giovedì 23 settembre 2010

Risposta A David Sassoli, con affetto.

Inutile ribadire in questa sede la mia stima per Lei (David Sassoli). Tuttavia mi vengono delle considerazioni da fare, premettendo di non sentirmi né xenofobo né populista e, forse, nemmeno ignorante. Il suo intervento, seppur corretto e impeccabile, mira a considerare e valutare le scelte politiche di Italia e Francia rispetto ai rom, ma non presenta alcuna proposta di soluzione al problema. E' facile dire che Berlusconi e Sarkosy sbagliano, ma le soluzioni? LE VOSTRE SOLUZIONI? Prima di criticare - e per giunta senza alcuna alternativa - chiederei di vivere qualche giorno (basterebbe anche qualche ora) nei pressi dei campi rom, nei quartieri che ne sono a stretto contatto, nelle periferie piene di baracche. Lì non vivono i politici - men che meno quelli "di sinistra"- ma la povera gente, gli italiani dal reddito più basso; questo perché gli immobili nei pressi dei campi rom perdono di valore e i prezzi degli affitti crollano. Lì non vivrà mai un radical chic, ma la famiglia monoreddito, il cassintegrato. Lì, che Le piaccia o no, ci vivono solo i poveracci. E i rom, come diceva Cacciari (ormai ex sindaco di Venezia in quota PD) in un recente intervento, PER LORO CULTURA vivono in baracche fatiscenti, accontentandosi di elemosine ed espedienti vari, trascurando l'igiene personale e la cura dell'ambiente. Non ho mai visto una donna rom impegnarsi per trovare un lavoro serio, come badante, commessa, impiegata (certo, qualche rarità la troveremo!). Piuttosto ricordo le donne "zingare" chiedere in corteo le elemosine davanti alla facoltà di giurisprudenza di Tor vergata, nei pressi del centro commerciale "La Romanina". E penso ai bambini rom costretti "per cultura" ad elemosinare per le strade della città, con la copertura e l'assenso delle loro madri. A loro della scuola importa poco, è la loro CULTURA. Ma i bambini li teniamo fuori: per loro il discorso si fa più complesso, delicato.
Vede, non vorrei che la sinistra, o il centrosinistra, ricorresse ad un espediente che apparentemente contrasta il tanto vituperato populismo (o presunto tale ), ma che in concreto ne ricalca lo stile, le forme e gli effetti: IL BUONISMO. Convinta, per di più, che il buonismo sia di una levatura culturale superiore, di elite, appannaggio di pochi illuminati. Non sono un politologo, ma azzardo l'ipotesi secondo cui uno dei motivi che hanno portato il centrosinistra a perdere terreno (e a me dispiace) è stato proprio lo "sfatamento" del falso mito del buonismo da parte degli italiani; il fatto di averne riconosciuto il suo distacco con la realtà e il buonsenso. Interpelliamo la gente reale, quella che vive, respira e ama a ridosso dei campi rom. Sentiamo cosa dice, cosa pensa. Oppure voi politici, di destra e sinistra, andate a vivere da quelle parti, ogni giorno. OGNI GIORNO! Passeggiate per quei parchi (o in quello che ne resta), parcheggiate le vostre macchine tra quelle strade, fate giocare i vostri figli in quei piazzali! Ma questo non accadrà mai, perché i vostri figli studiano nelle MIGLIORI SCUOLE PRIVATE, e voi fate i ministri delle scuole dei poveracci; governate le scuole dei figli degli altri, perché lì i vostri rampolli non ce li manderete mai! I figli di Fioroni, Bertinotti, Santoro, Franceschini non dovranno mai integrarsi con i figli delle famiglie rom, semplicemente perché dove studiano non c'è nemmeno l'ombra dei bambini rom. Voglio vedere i vostri figli in prima linea nelle manifestazioni studentesche, nelle autogestioni e nelle occupazioni delle scuole!!! Voglio vedere i vostri figli in una classe con 10 immigrati (su 18 alunni) di 4 nazionalità diverse, dove si parlano lingue semitiche e orientali! Penso che sarà più facile vedere Berlusconi che impugna la bandiera con falce e mertello e canta "Bella ciao"!
Esiste il valore dell'accoglienza, che è sacrosanta; ma esistono anche i valori della convivenza civile, del rispetto della legalità, della tutela della natura e dell'ambiente; il valore del lavoro e dei diritti dell'infanzia. Perché proporre MALDESTRAMENTE il primo trascurando gli altri?
Con affetto e immutata stima.

martedì 21 settembre 2010

Profilo psicologico dei docenti

Un interessante libro di Bosworth, Haakenson e McCacken (1997) tratteggia alcune tipologie psicologico-comportamentali di insegnante. Eccole di seguito: 

AUTORITARIO
Pone molti limiti e regole alla vita di classe senza giustificarli agli allievi, intervenendo, se tali norme vengono trasgredite, con punizioni o richiedendo l'intervento sanzionatorio del Dirigente Scolastico. Svolge per lo più con toni calmi la lezione, non interrotto dai suoi allievi poiché non favorisce scambi verbali o discussioni. Non risulta, inoltre, particolarmente interessato alle motivazioni delle assenze dei propri alunni.

AUTOREVOLE


Pone regole ferme che motiva alla classe e contemporaneamente incoraggia l'autonomia; rimprovera fermamente ma con rispetto; tiene conto delle circostanze nella trasgressione delle norme e accetta una discussione critica; consente di essere interrotto per domande o commenti rilevanti; favorisce lo sviluppo di abilità comunicative.

SUPPORTIVO


Molto attento al benessere degli studenti, ma poco al controllo della classe: non imposta, infatti, un sistema di norme per la vita della classe, tollera atteggiamenti impulsivi e interviene poco per sanzionarli; si preoccupa di non urtare la sensibilità degli studenti e ha difficoltà a imporre il suo ruolo in classe.

PERMISSIVO

Non è coinvolto dalla vita della classe; pone poche domande agli allievi, risultando disinteressato; si impegna scarsamente sia nell'impostare e far rispettare le norme della vita della classe sia nel progettare e programmare attività; non dimostra iniziativa o creatività; inibisce la motivazione degli studenti, il loro coinvolgimento e il loro autocontrollo.

sabato 18 settembre 2010

La vacanza logora chi la fa!


Da una articolo pubblicato sul Corriere Della Sera del 30 agosto 2010

Scuola ESTATE SENZA SCOPO: TEMPO VUOTO DA ELIMINARE

Vacanze lunghe. Eredità di un’altra Italia che fa male ai ragazzi
Il mondo non va in vacanza, il pensiero neanche. Perché gli studenti debbono invece restare ogni estate tre mesi lontani dai banchi, ostaggi, più o meno consenzienti, di un sonno della mente che nei casi migliori è interrotto da squarci di divertito apprendimento (anche in vacanza si impara), nei peggiori li precipita in un ozio che non ha nulla di contemplativo, somigliando piuttosto all’inazione dei beoti? (Esagerato? Pensate al ciondolare fra playstation e tv, scena che qualsiasi genitore di adolescenti conosce nei dettagli, vista la frequenza. La domanda «non hai di meglio da fare che stare seduto sul divano?» non riceve mai risposta).

Sull’anacronismo dell’interminabile pausa estiva della scuola si torna a discutere ora, sfidando quella che Gaspare Barbiellini Amidei chiamava la «distrazione di massa» rispetto al tempo totalmente vuoto dell’estate dei nostri figli. Tanto in inverno e primavera ci si accalora in polemiche sul tempo scolastico pieno— a cui la gran parte dei genitori della scuola pubblica non vuole rinunciare, anzi lo vorrebbe ancora più pieno di contenuti pedagogici e iniziative — tanto, all’arrivo dell’estate si sorvola, si soprassiede accomodanti, si giustifica il precipitare nell’eccesso opposto, il tempo vuoto, ricordando che «è sempre andata così, anzi, quando si cominciava a ottobre era pure peggio». Neppure il tempo meteorologico pare più una motivazione sufficiente a tenere in vita un rito sempre più indifendibile: le ondate di caldo sono concentrate e le bizzarrie climatiche poco calendarizzabili.


Il settimanale Time, nel cuore dell’estate della distrazione di massa, ha rilanciato, rinfrescando la memoria sui danni prodotti dall’inattività: gli studenti americani, scrive citando uno studio della Duke University, durante lo stop estivo regrediscono nelle proprie conoscenze, perdendo in media un mese dei progressi fatti in matematica. La situazione peggiora nelle famiglie a basso reddito, con uno scivolone nelle conoscenze dei ragazzi di ben tre mesi e in tutte le materie. Nell’era della formazione continua, dell’aggiornamento, del perfezionamento senza fine, ci ritroviamo con un calendario scolastico da stagione agricola. Lo aveva detto Obama, giusto un anno fa, settembre 2009: «Non possiamo più permetterci un calendario disegnato per quando eravamo una nazione di contadini e c’era bisogno che i bambini andassero a lavorare nei campi al termine di ogni giornata». E, di qua dell’oceano, parole diverse per arrivare alla stessa conclusione: «L’attuale calendario scolastico è un cimelio del passato, quando le famiglie dei contadini avevano bisogno di avere i figli a casa d’estate per aiutarli nel raccolto della frutta. Oggi ci sono forti motivi a sostegno del cambiamento», è scritto in un rapporto dell’Ippr, Institute for Public Policy Research inglese datato 2008. (E, detto per inciso, sia Stati Uniti che Gran Bretagna hanno già vacanze estive più brevi delle nostre).

 In Italia, proposte di riforma delle vacanze vengono avanzate a ciclo continuo. Nel 2008 l’allora ministro dei Beni culturali Rutelli formulò l’idea, elaborata insieme al ministro della Pubblica istruzione Fioroni, di ridurle. Tutto si risolse nell’avvio di qualche coraggiosa sperimentazione regionale. L’anno successivo, il ministro all’Istruzione Mariastella Gelmini disse di essere «molto aperta» alla proposta di legge di un senatore del Pdl di iniziare le lezioni dopo il 30 settembre: «Potrebbe aiutare molte famiglie e dare una mano al settore turistico». Non se ne fece nulla, ma lo strabismo della progettualità mise a nudo l’assenza di una vera strategia.

Come si giustificano conclusioni così diverse? Le vacanze lunghe hanno i propri estimatori. Tutto si impara nelle aule scolastiche o si può apprendere anche fuori? E se è giusta la seconda, le vacanze non sono il periodo giusto in cui sperimentare il mondo e giocarsi le conoscenze sul campo? Anche l’estate senza scuola, insomma, può dare molto. Questo «molto» però — obietta chi le vacanze le vorrebbe sforbiciare, non abolire — bisogna andarselo a cercare, bisogna inventarselo (o avere i soldi per comprarlo perché le vacanze studio e i corsi di tennis costano), mentre la scuola, laddove funziona, è lì per tutti.



Il pedagogista Benedetto Vertecchi definisce un’«autentica follia» lo stop estivo di un trimestre: per garantirsi quell’infinita pausa, la scuola italiana è infatti costretta a correre, correre per i restanti nove mesi. E se alla fine i conti tornano, è solo grazie ad uno stratagemma: far coincidere il tempo dell’attività scolastica con le ore di lezione. Da noi, stare a scuola significa stare seduto al banco ad ascoltare gli insegnanti che portano avanti il programma. Le attività piacevoli, creative, divertenti, quelle che fanno crescere di cuore e di cervello restano fuori dalla porta delle aule: non c’è tempo. Laboratori, gruppi di studio, attività musicali o teatrali, persino giardinaggio: ciò che, a pieno titolo, in altri Paesi europei è considerato «tempo scolastico», perché svolto utilizzando le strutture della scuola, da noi è facoltativo in alcuni casi, inesistente in altri. L’esempio più limpido viene dalla Francia, dove il mercoledì non si fa lezione perché gli studenti sono impegnati in attività collettive (adesso vanno forte i club degli scacchi, che sono un modo divertente per integrare le conoscenze di matematica).
Se con «tempo scolastico» si intendessero, anche qui, tante cose e non una sola (cioè lo stare seduti al banco), forse il termine «vacanza » perderebbe parte del suo appeal e l’ipotesi di ridurre la lunga pausa estiva da eresia coraggiosa diverrebbe via praticabile. Il passo per arrivarci, insiste il pedagogista, è scardinare il vecchio congegno, fuggire dall’idea della scuola «catena di montaggio» — prima ora italiano, poi latino, poi storia, poi matematica, poi scienze—e recuperare tutto quanto può rendere ricco di esperienze il tempo dei ragazzi. «Da noi non c’è mai un momento in cui ciò che si apprende è oggetto di riflessione, applicazione, confronto e condivisione fra studenti o con gli adulti», sintetizza Vertecchi.
Anche la famiglia ha le sue responsabilità in un sistema che appare cristallizzato. A pesare è soprattutto quel modo di concepire lo studio/ lavoro e la vacanza come pianeti che orbitano in universi lontani, l’uno l’opposto dell’altro; quella «mentalità impiegatizia», come la definisce lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, che fa dire, in qualunque periodo dell’anno ci si trovi, «non vedo l’ora che arrivino le vacanze ». «A Milano—sostiene Scaparro—durante i mesi invernali gli adulti non parlano d’altro che delle ferie, sembra che l’anno sia formato da un picco di piacere, che coincide appunto con queste, e dai restanti 11 mesi di grigiore e routine». La dicotomia crea un circolo vizioso che sottrae energie, più che riattivarle. «Invece si può e si deve investire giorno per giorno: per vivere decentemente, anche quando lavoriamo o studiamo dobbiamo avere un piccolo spazio quotidiano di libertà. Trasmettere ai figli l’idea che il bello sia la vacanza mentre lavorare o studiare sono una dannazione è un errore che a settembre, quando si ricomincia, non riusciamo a recuperare».
D’accordo sulle vacanze estive da ridurre Edoardo Boncinelli, genetista. «Il cervello dei ragazzi, che per nove mesi ha mangiato tutti i giorni, d’estate improvvisamente si trova a digiuno, senza nulla su cui applicarsi seriamente. Certo: un ragazzo sano e sveglio il cervello l’adopera sempre, anche in vacanza; ci sono però anche i ragazzi pigri. E poi non dimentichiamo che ciascuno di noi si applica volentieri a quello che gli viene facile, dunque, comunque vada, il lavoro fatto durante le vacanze è sempre, per così dire, un lavoro "leggero"». La conclusione di Boncinelli è l’appello ad un equilibrio fra l’uso originario assegnato dalla natura al nostro cervello e il modo in cui invece noi, oggi, ce ne serviamo. «Il cervello doveva servirci a scattare al primo allarme, inseguire la preda trovando il modo migliore per catturarla, renderci conto della situazione ambientale, agire. Oggi invece lo usiamo per cose lontane anni luce dalla natura, come leggere. Parlare male della cultura non si può, perché è la cultura ad aver creato la nostra civiltà, però bisognerebbe raggiungere un equilibrio fra ciò che è bene per l’animale uomo e ciò che indispensabile per l’animale culturale».
La prossima estate sarà cambiato qualcosa? «Ci vogliono idee per cambiare, ma per avere idee serve la conoscenza», chiude Vertecchi. «In Italia non abbiamo strutture che consiglino le scelte più opportune, nelle nostre università la ricerca educativa è ridotta ai minimi termini. Faccio un esempio: oggi qualunque insegnante si lamenta perché la qualità delle prestazioni linguistiche dei ragazzi è bassa, il lessico povero, la sintassi scadente. La recriminazione è diffusa, e anche giusta, ma la domanda è: come ne usciamo? Per rispondere dovremmo conoscere il modello della comunicazione linguistica di bambini di 8 o 14 anni, sapere quanto e come è mutato nel corso degli anni. E questo non lo sa dire nessuno. Se non c’è accumulazione conoscitiva, dobbiamo rassegnarci alle impressioni. E solo con le impressioni i sistemi scolastici non cambiano, o cambiano male."




Daniela Monti
30 agosto 2010

venerdì 17 settembre 2010

Dare ai poveri il dominio sulla parola

Al Direttore del “Giornale del Mattino”, Firenze
 
Barbiana, 28.3.1956

Caro direttore,

il tuo giornale si prende spesso a cuore la sofferenza dei disoccupati e dei senza tetto e te ne siamo tutti grati.
Tetto e pane sono fra i massimi beni. Mancarne è dunque una delle massime miserie.
Eppure l'uomo non vive di solo pane. C'è dei beni che sono maggiori del pane e della casa e il mancare di questi beni è miseria più profonda che il mancare di pane e di casa.

Questo tipo di beni chiamerò ora per comodità di di­scorso « istruzione », ma vorrei che tu prendessi questa parola in un senso più largo, comprensivo di tutto ciò che è elevazione interiore.
A questo punto qualcuno insinuerà che presto al po­vero sentimenti che sono miei e che nulla al mondo pre­me  al povero quanto la casa e il pane. Lo cheterò allora con un argomento che non ammette repliche perché è un dato di fatto.
Sono parroco di montagna non molto lontano da Firenze. Il mio popolo contava 230 anime nel 1935, ora ne conta 124. Solo dall'anno scorso in qua ne ha perse 24. Su 25 case ce n'è 7 vuote. Diglielo a La Pira, 7 case vuote! E non manca neanche un boccone di pane per chi ci volesse tornare. Sudato, strappato, ma insomma bene o male quando c'erano quei 106 in più hanno mangiato e non sono morti di fame. E la terra allora rendeva meno d’ora. Vedo poi nel tuo giornale che pagate la legna a 1200 lire il quintale. Penso che i vostri disoccupati devono aver patito un gran freddo quest'inverno. Noi invece s'è tagliato quercioli e querci quanto c'è parso. Nel focolare dei più poveri dei miei figlioli brucia ogni giorno certi ceppi che a voi altri vi basterebbero due inverni.
Qui dunque case a scialo, legna a scialo, e un boccone di pane per tutti. E a Firenze La Pira a arrabattarsi coi barroccini degli sfrattati da un uscio all'altro. Perché non ce li manda quassù?
Ecco, vedi, anche lui, che i dolori dei poveri in città li ha ben presenti, lui che di montagna non se ne intende, l'ha fiutato però che quella parola non la poteva dire.
« Vacci te! » « Perché io? Vacci te! » griderebbe ognu­no a Firenze dal più grande al più piccolo. Lo direbbe chi lavora al disoccupato, lo rinfaccerebbe il disoccupato a chi lavora.
La Pira non è di quelli che dicono che i montanari scendono al piano per andare al cinema. Lui non offende così un popolo intero che migra. Un popolo intero, non due o tre giovani sconsiderati e avventurosi. Un popolo intero, coi saggi vecchi e le donne di casa che non hanno più grilli per il capo. Sono scesi al piano e son disposti anche a morirvi di fame, di freddo e d'altri stenti, ma ai monti non risaliranno mai.
Qualcuno dice che se i disoccupati e i senza tetto non vi salgono è solo perché non sanno più i mestieri dei monti.
Eh sai, ce ne sarà di molti dei vostri disoccupati che non sanno i mestieri dei monti! Fate un po' una statistica sui luoghi di nascita dei vostri manovali disoccupati. Al più lungo saranno scesi da una generazione. Ma i più sul­la terra e sui monti ci son nati e saprebbero ancora gua­dagnarsi il pane con l'accetta nel bosco e anche adattarsi al nostro tipo di stenti perché l'han lasciato da poco e ci son cresciuti. Saprebbero, ma non s'adattano.
C'è dunque qualcos'altro. Questo qualcosa è ciò che ho detto di voler chiamare istruzione e comprende tutte le infinite piccole grandi cose che pongono un montanaro in condizioni di inferiorità e d'umiliazione di fronte al cittadino.
Sull'analisi di questo fatto non ho bisogno di dilungar­mi. Mi basta per ora averne dimostrato l'esistenza. Dico­no che l'esodo dai monti è un salto dalla padella nella brace. Ma nessuno ritorna indietro, dunque quel qualco­sa che brucia più della brace esiste. E quel qualcosa è per forza il dislivello culturale perché non vedo cos'altro pos­sa essere se non è né il pane né la casa.
Ciò che dico dei montanari rispetto a quelli di piano vale poi coll'identico peso, anche se a livelli diversi, per i contadini rispetto ai pigionali, per i campagnoli rispetto ai cittadini, per gli operai rispetto ai diplomati.
Le conseguenze di questi quattro dislivelli culturali so­no gravissime, e si estendono ai campi più vari e impre­visti.
Mi basti qui accennarti che su chi sa meno gioca bene il •propagandista politico, il commerciante, 1'imprenditore, la Confindustria, il distruttore di religione, il corruttore, lo stregone... Ma ti risparmio il quadro doloroso che po­trei tracciarti di questa che è la miseria più grave dei mi­seri e che riassume tutte le altre loro miserie, perché sup­pongo che tu ne sia già compreso da tempo. Veniamo piut­tosto a analizzarne l'intima essenza.
Credi proprio che uno dei miei ragazzi di montagna abbia un numero di cognizioni molto inferiore di un suo coetaneo di città?
Dieci anni di occhi di ragazzo spalancati sul mondo so­no dieci anni qui sul Monte Giovi come in via Tornabuo­ni. E nel tempo che i vostri figlioli posavano gli occhi su un mucchio di cosette scelte, i miei non li tenevano mica serrati, li posavano su altre cosette.
I vostri conoscono il dinosauro e il puma ma non co­noscono un conigliolo maschio da una femmina. I miei non sanno i colori del semaforo né se un rubinetto si giri a destra o a sinistra, ma in compenso sanno tutto sulla vita del bosco coi suoi infiniti nidi, rettili, piante, col volgere delle stagioni e delle ore.
Dieci anni valgon dieci anni, credi a me. Va bene che sui libri c'è una concentrazione di osservazioni che con gli occhi nostri e basta non si potrebbe raggiungere. Ma qui in compenso, nel grande libro del bosco e del campo, c'è una concretezza di osservazioni che sui libri non si raggiungerà mai.
Ma oltre al libro del bosco c'è anche quello delle fami­glie. Sulle famiglie e le loro leggi e i loro rapporti sa trop­po di più un ragazzo di qui che uno dei vostri. Passa un trasporto e non sapete chi è morto, come è morto, se ha lasciato dietro di sé pianto e litigi. Cosa volete dunque saperne della vita all'infuori del ristretto cerchio di casa vostra o di quello dei libri che leggete e vi ingannano per­ché di solito lì ha scritti gente isolata nel guscio come voi?
Tutto questo discorso solo per concludere che è da pre­sumersi a priori che per es. un boscaiolo di vent'anni sia ricco di cognizioni e d'una visione del mondo pari a quel­la d'un universitario di vent'anni. Non voglio dire egua­le, ma equivalente si. Più ricca da una parte, più povera da un'altra. In conclusione: certo non inferiore. Anzi, se proprio dovessi dire la mia opinione sono incline a credere che Dio abbia voluto dare piuttosto qualcosa di più al diseredato che all'altro: in buon senso, equilibrio, rea­lismo ecc.
Ebbene, ora questi due uomini che abbiamo detto cer­to non inferiori l'uno all'altro per ricchezza interiore, mettiamoli di fronte l'uno all'altro in discussione. Oppure di fronte ai problemi quotidiani che la vita moderna impo­ne, e vedremo il mio figliolo cadere al primo colpo. Umiliato, battuto in mille occasioni dal primo bellimbusto di studentello cittadino.
Forse che il semaforo o il rubinetto (opere di mano d'uomo) valgono più del bosco (opera di Dio)? Forse che fra le cognizioni c'è una gerarchia di valori? Alcune (quelle di città) nobili e utili; altre (quelle del bosco) ignobili e vane. Se quella gerarchia si dovesse fare, vorrei che le cognizioni del bosco fossero innanzi a quelle del programma TV o a quella dell'ultimo ritrovato americano per far la vita comoda e non virile. Ma quella gerarchia non esiste. Il sapere è nobile sempre, quando è conoscenza del creato di Dio.
Io son sicuro dunque che la differenza fra il mio figlio e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola.
I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre e ínsteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l'intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradi­menti le infinite ricchezze che la mente racchiude.
Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, glie­le seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi.
Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano subito l'utilità pra­tica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L'uno se ne accor­ge nell'affrontare il libro del motore per la patente. L'al­tro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo s'è buttato sui romanzieri russi e li intende. Ognuno di loro se n'è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista a voce alta, pieni di bo­ria. Delle loro parole afferra oggi il valore e ogni sfuma­tura. S'accorge solo ora che esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. I più arditi han provato anche a metter bocca. Cominciano a inchiodar il chiacchierone sulle parole che ha detto.
« Parole come personaggi » si chiama una tua rubrica. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale. Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la ti­rannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata.
Una utopia? No. E te lo spiego con un esempio.
Un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare 1'ope­raio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l'operaio e l'ingegnere, non c'è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l'ingiustizia di oggi per cui l'ingegnere debba essere più uomo dell'ope­raio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Que­sta non fa parte delle necessità professionali, ma delle ne­cessità di vita d'ogni uomo, dal primo all'ultimo che si vuol dir uomo.
Il dominio sul mezzo d'espressione è un concetto che non riesco a disgiungere da quello della conoscenza delle origini della lingua. Finché ci sarà qualcuno che la pos­siede e altri che non la possiedono, questa parità base che ho chiesto sarà sempre un'irrisione. [...]


Don Lorenzo Milani