martedì 7 dicembre 2010

Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita...

Mi è capitato di nuovo sotto gli occhi, per la prima volta dai tempi dell'università, un interessante articolo di Gaetano Salvemini.

Oltre ad essere geniale e scritto magistralmente, è un quadro della corruzione e del malcostume meridionali tuttora ATTUALISSIMO.

Fu pubblicato su "La Voce" di Prezzolini il 3 gennaio del 1909.

Gli adolescenti che dopo aver fatto il liceo in una città del Napoletano, lasciano la famiglia per andare ad addottorarsi all’Università di Napoli , sono forniti assai di rado di una perfetta e solida coscienza morale. Ma anche nei peggiori non mancano mai grandi capacità di bene. E basta che un giovane meridionale abbia la fortuna di trovarsi sbalzato fra i diciotto e i ventidue anni in un centro di lavoro onesto, in una scuola universitaria seria e sana, perché in lui – fornito quasi sempre di un’intuizione rapidissima, di un forte amor proprio, di facile adattabilità all’ambiente – di determini subito una grande crisi di rinnovamento e di epurazione. E da questa crisi nascono prodotti talvolta mirabili per raffinatezza e per forza, ma non mai inferiori a quella che è la media intellettuale e morale dei giovani del Settentrione.
La più parte dei Meridionali, invece va a finire a Napoli. E Napoli è la piaga del Mezzogiorno, come Roma è la piaga di tutta l’Italia.
Nelle città universitarie del Nord non mancano, certo, occasioni di sviarsi al giovane, sfuggito appena alla costrizione della famiglia e della scuola secondaria, e avido di bere a grandi sorsi la coppa della libertà. Ma una grande ondata di lavoro affannoso travolge tutto, compensa ogni male, purifica tutto. E il giovane si sente come soggiogato da un comando universale, perenne, che lo sospinge alla fatica e lo consiglia a farsi avanti, ad affermarsi conquistatore di quelle forme poderose di vita che lo dominano e lo affascinano. Napoli , invece, vasto centro di consumi e di attività improduttive, in cui una metà della popolazione campa borseggiando e truffando l’altra metà, sembra fatta a posta per incoraggiare alla poltroneria e per educare alla immoralità. Tutto è chiasso, tutto è dolce far niente, quando non è imbroglio è abilità. Dal lazzarone che si spidocchia al sole, all’alto magistrato, di cui tutti sottovoce dicono che vende le sentenze; dal questurino, che sfrutta le prostitute, al giornalista ricattatore che sfoggia sfacciato automobili e amanti; tutti sembra che consigli al giovane: «Arrangiati, che io m’arrangio, l’onestà e il lavoro sono buoni per gli sciocchi: godere è lo scopo della vita». Nessuna voce grida alla sua coscienza inquietata e vacillante: «Su via figliuolo: lavora per te e per gli altri; il lavoro è la gioia, il lavoro è la libertà».
Dopo qualche mese di tirocinio in quell’ambiente pestifero e infetto, la giovane speranza della giovane delinquenza meridionale ha scelta per sempre la sua strada. Non è più il ragazzone di facile contentatura, timido e impacciato d’una volta. È diventato un elegantone: si pettina e si veste in modo da stare fra il cinedo e il guappo. Si è emancipato da ogni principio morale. Fa la corte alla figlia della padrona di casa. Abbraccia la serva in cucina e la portinaia per le scale. Molto spesso si busca la sifilide. Non c’è denaro che gli basti. E tempesta per averne la mamma e le sorelle di lettere menzogne e minacciose: povere mamme, che si consumano nella lotta ineguale contro le ristrettezze del bilancio; povere sorelle, che sfioriscono nell’ombra nutrendosi di legumi e rattoppando calzerotti per il fratello lontano!
Qualche volta Cocò si ricorda di essere anche studente universitario: quando c’è da fare una chiassata. Cocò è quasi sempre anticlericale: quando viveva Giovanni Bovio, non mancava mai di andare ad ascoltarlo e di applaudirlo almeno una volta all’anno. Spesso Cocò è addirittura socialista rivoluzionario: è insuperabile nel rompere le vetrate, nel fracassare le panche, nel fare con la  bocca e con la mano suoni non perfettamente musicali. Cocò può essere rivoluzionario tanto più agevolmente, in quanto è sicuro a priori dell’impunità qualunque birbonata faccia: i carabinieri, che moschettano per dei nonnulla i contadini affamati, non daranno mai noia al caro figlio di papà. E Cocò è sicuro a tutte le ore di trovare all’Università qualche migliaio di mascalzoni simili a lui, pronti sempre a fare come lui i socialisti rivoluzionari. Oggi le panche saranno rotte per protestare contro il governo, domani per anticipare le vacanze, dopo le vacanze per ottenere una riduzione di tariffe sui trams e poi per conquistare gli esami di marzo, poi per solidarietà con i colleghi bocciati; e avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e la scure.
Di tanto in tanto lo spirito di Cocò è turbato dallo spettro degli esami. Ma solo alla morte non c’è rimedio! Una Università in cui 5000 alunni fanno ogni anno, nelle sole sessioni di estate e di autunno, senza contare quella abusiva di marzo, 17000 esami, non può cercare troppo il pelo nell’uovo in questo genere di operazioni. Eppoi parecchi professori ufficiali esercitano anche le libere docenze, inscrivendosi al loro corso libero, l’elegantone laureato si garantisce abbastanza bene contro i rischi di quegli esami che dipendono da quei professori. Altri professori ufficiali sono investiti di incarichi in materie non  obbligatorie, che apparirebbero inutili qualora non vi si scrivesse un numero sufficiente di volenterosi. Cocò si inscrive anche a questi corsi, e si assicura altri esami. Parecchi professori ufficiali, specialmente delle facoltà di giurisprudenza e medicina, sono avvocati o esercitano la professione, o fanno gli affaristi: è facile, quindi, trovare il magistrato, il banchiere, l’lettore influente, il cliente danaroso, il socio d’affari, che con una raccomandazione metta a posto qualche altro esame. Poi ci sono i professori indulgenti per natura, o vecchi o rimbecilliti, che non bocciano mai, mai, mai. Non manca a Cocò che incontrare nell’Università di Napoli uno dei trecentocinquanta liberi docenti, imbroglione e pasticcione, camorrista e intrigante, che sa aiutare nei momenti difficili i poveri giovani bisognosi di soccorso. Basta dare la firma a uno di costoro, lasciandogli godere tutte le dodici lire e centesimi dell’indennità e non pretendendo il rimborso immediato il rimborso immediato di una parte delle dodici lire, come molti fanno, e la gratitudine e la protezione del libero docente è assicurata in tutte le commissioni d’esame, in cui egli farà parte.
Ed ecco come l’Università di Napoli sforna ogni anno circa 600 fra medici e avvocati e una sessantina fra professori di lettere e scienze, dei quali la più parte non è assolutamente capace di scrivere righe senza almeno errori di grammatica ed è intellettualmente abbrutita e moralmente disfatta. Questa vergogna non è peculiare all’Università di Napoli. Tutte le università italiane sono più o meno ammalate: ed in di corsi liberi, per es., gli abusi che si commettono dai professori ufficiali a Palermo, a Torino, a Padova, sono forse superiori a quelli di Napoli. Ma è innegabile che nell’insieme l’Università di Napoli è quella che accentra in sé il minor bene e il maggior male; che mentre nelle altre università prevalgono fra i professori ufficiali in proporzioni più o meno forti gli scienziati sugli affaristi, nell’Università di Napoli prevalgono gli affaristi sugli scienziati.
Cocò, analfabeta e laureato, si avvede ben presto di essere inetto a vincere un concorso per la magistratura i per le prefetture o per i ministeri, se è avvocato; è sistematicamente bocciato nei concorsi per le scuole medie, se professore; non ha nessun titolo di capacità per ottenere una condotta fuori del paese natio, se è medico. Se ne ritorna, dunque, sospirando alla casa paterna dove lo aspettano la mamma invecchiata e le sorelle avvizzite. E qui, impotente a vivere coi frutti della professione libera, privo com’è di una qualunque abilità tecnica, tenta di assicurarsi un reddito, anche minimo, con un impiego municipale. Dove il partito dominante è solido e potente, Cocò gli striscia umile ai piedi e gli chiede un tozzo di pane. Dove esiste un’opposizione abbastanza forte o la maggioranza non si affretta a riconoscere i meriti e i diritti del neolaureato, costui si mette all’opposizione e combatte la maggioranza nell’interesse della patria. E allora si vede Cocò, anticlericale fierissimo all’Università, iscriversi a una confraternita e tenere il baldacchino dietro al Vescovo nelle processioni; e l’ex-socialista rivoluzionario giocare la sera a terziglio col delegato, col maresciallo dei carabinieri, e chi applaudiva Giovanni Bovio falsifica le bollette del dazio consumo e ruba i denari della beneficenza.
L’azione politica degli spostati ha una grandissima importanza nella società moderna, perché costoro, non avendo nulla da fare, fanno per tutto il giorno della politica: sono giornalisti, libellisti, galoppini elettorali, conferenzieri, propagandisti. Fanno di tutto; e in grazia delle loro attività, si conquistano i primi posti nelle file dei partiti politici, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche. Per tal modo tutta la vita dei partiti si accentra in essi: e poiché le idee non girano per le strade sulle proprie gambe, ma si incarnano in uomini, si ha che le più belle idee, i più bei programmi di questo mondo, quando cadono nelle mani di quei miserabili, si riducono a pretesto per conquistare un impiego. E i partiti vanno in rovina; perché, conseguita la vittoria, la distribuzione degli impieghi è causa di ingiustizia contro gli impiegati antichi o di dissidi fra gli aspiranti, sempre più numerosi del bisogno; una prima ingiustizia indebolendo moralmente gli amministratori che l’hanno commessa, li dà mani e piedi legati in balia degli elementi peggiori del partito, che, minacciando scandali e e pronunciamenti, ricattano senza posa e senza freno i loro padroni e li obbligano a nuove ingiustizie o a nuove immoralità; gli impiegati maltrattati si inviperiscono, gli aspiranti delusi o passano al partito avversario, o restano nel partito a crear nuove scissioni e sospetti e recriminazioni. E così i partiti, che avevano riportato strepitose vittorie e sembravano depositari della più scrupolosa giustizia e padroni dell’avvenire, in pochi mesi si disgregano e precipitano nel fango.
È questa una malattia di tutti i partiti, a qualunque gradazione politica appartengano, e di tutti i comuni italiani, qualunque sia la razza che li popoli. E girando per l’Italia e vivendo a lungo in Romagna, in Lombardia, in Toscana, ho acquistato sotto questo, come sotto molti altri rispetti, una discreta stima per l’Italia… meridionale: tutto il mondo è paese; e anche i nordici sono discretamente sudici. Ma fra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale ci sono, a danno del Mezzogiorno, le seguenti differenze. 1. Nel Mezzogiorno le professioni libere offrono meno risorse che nel Settentrione, data la minore ricchezza del paese e i meno sviluppati bisogni civili della popolazione; 2. Nel Mezzogiorno i professionisti, e più specialmente gli avvocati, sono più assai numerosi che nel Nord, e quindi si riversa sugli impieghi comunali un maggior numero di spostati; e Cocò è costretto ad una concorrenza più feroce, e non ha modo di fare le cose per benino e di salvare le apparenze come fanno i suoi analoghi nell’Italia settentrionale; 3. Nel Nord la classe dei professionisti affamati costituisce soltanto uno fra gli elementi della vita politica ed amministrativa e deve coordinare e subordinare la propria azione a quella di altre classi che hanno peso politico: borghesia industriale e commerciale, proletariato industriale, proletariato rurale, professionisti competenti e non affamati; nel Mezzogiorno la borghesia capitalistica è poco sviluppata, il proletariato industriale è agli inizi, il proletariato rurale è escluso dal voto perché analfabeta, professionisti competenti e non affamati ce ne sono pochini assai. E così gli spostati – il cosiddetto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della classe politicamente attiva, sono ovunque i padroni del campo, saccheggiano senza limiti e senza freno i bilanci comunali; e si possono dare anche il lusso di dividersi in partiti, secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o dall’opposizione. E li spese di tutto questo lavoro le fanno sempre, alla chiusura dei registri i contadini.
E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante politico di una delle due camorre di professionisti affamati [maggioranza e opposizione], che si contendono il potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste nell’impetrare l’acquiescienza della prefettura, della magistratura, della questura, alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia al governo in tutte le votazioni per appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia. Con questa differenza: che le province settentrionali presidiate da una borghesia non indegna della sua funzione politica e sociale, e forti di una vigorosa vita autonoma, reagiscono contro l’infezione della Città Eterna, e bene o male fanno la loro strada. Nel Mezzogiorno la corruzione propinata dal governo centrale si accumula a quella che pullula nella vita locale, e tutto il paese si sprofonda in una fetida palude di anarchia intellettuale e morale e di volgarità.
E in tutto questo processo patologico una parte grandissima di responsabilità tocca ai professori dell’e Università di Napoli che sono venuti meno sì spesso al loro dovere di far servire l’Università a selezionare intellettualmente e moralmente senza debolezze e senza colpevoli pietà la borghesia meridionale; e hanno lasciato che essa funzionasse come una scuola superiore di mala vita, e contribuiscono così poderosamente a rendere impossibile nelle classi dirigenti del napoletano ogni iniziativa illuminata e benefica, a dissipare in esse ogni coscienza di dovere e di solidarietà sociale, a distruggere nel Mezzogiorno ogni capacità di vita locale energica e sana.
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sabato 4 dicembre 2010

Il Risorgimento combattuto... sotto le coperte!

Certamente il Risorgimento diede gloria ai nostri grandi patrioti e loro ne diedero all'Italia: Cavour, geniale stratega politico; Garibaldi, geniale stratega militare. E poi Vittorio Emanuele II (anche se preso per mano da Cavour) e Giuseppe Mazzini, quest'ultimo forse collocato immeritatamente nell'Olimpo dei grandi del nostro Risorgimento. Sta di fatto che volavano schioppettate e colpi di baionette, stragi e arresti, intrighi di palazzo e armistizi.
Ma il Risorgimento - pare strano - non si combatté solo così; si combatté - soprattutto si organizzò - sotto le lenzuola di sontuose camere da letto, in palazzi sfarzosi, tra nobili giovanotti aitanti e dame bellissime e spregiudicate. Una di queste era Virginia Oldoino, meglio conosciuta come Contessa di Castiglione, nonché cugina odiata di Cavour.  
Ma come andarono, in breve, le cose? Cavour era ossessionato dall'ordire trame per accaparrarsi potenti che appoggiassero la causa risorgimentale del Piemonte e le provava tutte. Sapeva di aver bisogno dell'aiuto di Napoleone III, imperatore di Francia, ma doveva accaparrarsene i favori. Ci provò in tanti modi: convinse Vittorio Emanule II a dare in sposa una sua figlia al nipote dell'Imperatore e trattò con quest'ultimo i famosi accordi di Plombiers. Ma come mai Napoleone III fu così accondiscendente? Certamente per motivi politici che non staimo qui a dire, ma anche a seguito di un piano, potremmo dire "a luci rosse", ordito dallo stesso Cavour: inviò la tanto odiata cugina, Virginia, in Francia, con un obiettivo ben preciso: infilarsi nel letto di Napoleone III, il quale da tempo non riceveva le attenzioni della moglie Eugenia, in dolce attesa. Virginia, donna bellissima e impavida, ci mise poco, ma proprio poco, ad entrare nelle grazie dell'Imperatore. Così, tra un appuntamento e l'altro sotto le coperte imperiali, gli sussurrava all'orecchio le ragioni del risorgimento piemontese e la "questione italiana". E come poteva il buon Napoleone III resistere? Così, tra i vari trattati e accordi di palazzo, si inseriva la procacità di Virginia Di Castiglione e anche a lei va riconosciuta una fetta di merito se, qualche tempo dopo, l'Italia si fece veramente.

Ma chi era in realtà questa donna? Prendiamo un breve ritratto che ne fa Mauro Chiabrando sul Corriere della Sera:

"Virginia non amò altri che se stessa, motivo per cui il figlio Giorgio, morto di vaiolo a Madrid nel 1879, la detestava cordialmente. Dagli uomini sapeva farsi adorare quanto odiare dalle donne, prima tra tutte la spagnola Eugenia Montijno, consorte di Napoleone. Dalla amata Spezia, appena sposata si trasferì a Torino alla corte di Vittorio Emanuele di Savoia e quindi a Parigi. Dopo un esordio memorabile alle Tuileries, alla sfolgorante ventenne bastò mezz’ora d’amore con l’Imperatore cinquantenne nella stanza azzurra del Castello di Compiègne per riuscire nella “delicata” missione di Stato che le era stata affidata. Era il gennaio del 1856. Napoleone la coprì di gioielli, tra cui una collana a cinque giri di perle e si favoleggiava di un appannaggio mensile di 50mila franchi".
E ancora, a proposito della sua "collezione" di amanti:

43 AMANTI E IL VOLTO VELATO - Caduto il Secondo Impero nel 1870, con abilità e scaltrezza continuò a tessere, tra Parigi e La Spezia, la rete delle sue amicizie influenti collezionando 43 amanti, 12 dei quali avuti contemporaneamente e sempre all’insaputa l’uno dell’altro. La venere incontrastata del bel mondo che aveva incantato per le toilette da favola, i gioielli, tra i fasti e i piaceri della mondanità, ebbe il solo grave torto di sopravvivere alla sua bellezza. Trascorse l’autunno della vita sola, nel terrore dell’indigenza, sopraffatta da cupa nevrastenia e senso di persecuzione. Dei ricordi ormai non sapeva che farsene: per non vedere la sua decadenza fisica si velava il volto, copriva gli specchi, usciva solo la notte, circondandosi di un’aura patetica di mistero. Ancora ricca, ma in crisi di liquidità, nel 1893 subì l’onta dello sfratto dal suo ammezzato di Place Vendôme occupato dal 1876.
Morì a Parigi il 28 novembre 1899 in un piccolo alloggio sopra il ristorante Voisin.  All’indomani del suo funerale, la polizia e Carlo Sforza per l’ambasciata italiana distrussero tutte le lettere e i documenti compromettenti riguardanti re, politici, papi e banchieri, da Napoleone III a Bismarck, Cavour, Pio IX, Rothschild. Ci restano i suoi diari. Avrebbe voluto tornare in Italia e farsi seppellire alla Spezia con i suoi gioielli (andarono invece a sconosciuti eredi con una fortuna stimata in due milioni di lire del tempo), la camicia da notte verde acqua di Compiègne e i suoi due pechinesi, Sanduga e Kasino, imbalsamati. Riposa invece, tra i grandi, al Père Lachaise.